Alessandro Manzoni, Inni sacri – La Risurrezione (Aprile – 23 giugno 1812)
Qual masso che dal vertice
di lunga erta montana,
abbandonato all'impeto
di rumorosa frana,
per lo scheggiato calle
precipitando a valle,
barre sul fondo e sta;
là dove cadde, immobile
giace in sua lenta mole;
né, per mutar di secoli,
fia che riveda il sole
della sua cima antica,
se una virtude amica
in alto nol trarrà:
tal si giaceva il misero
figliol del fallo primo,
dal dì che un'ineffabile
ira promessa all'imo
d'ogni malor gravollo,
donde il superbo collo
più non potea levar.
Qual mai tra i nati all'odio,
quale era mai persona
che al Santo inaccessibile
potesse dir: perdona?
far novo patto eterno?
al vincitore inferno
la preda sua strappar?
Ecco ci è nato un Pargolo,
ci fu largito un Figlio:
le avverse forze tremano
al mover del suo ciglio:
all' uom la mano Ei porge,
che sì ravviva, e sorge
oltre l'antico onor.
Dalle magioni eteree
sgorga una fonte, e scende,
e nel borron de' triboli
vivida si distende:
stillano mele i tronchi
dove copriano i bronchi,
ivi germoglia il fior.
O Figlio, o Tu cui genera
l'Eterno, eterno seco;
qual ti può dir de' secoli:
Tu cominciasti meco?
Tu sei: del vasto empiro
non ti comprende il giro:
la tua parola il fe'.
E Tu degnasti assumere
questa creata argilla?
qual merto suo, qual grazia
a tanto onor sortilla
se in suo consiglio ascoso
vince il perdon, pietoso
immensamente Egli è.
Oggi Egli è nato: ad Efrata,
vaticinato ostello,
ascese un'alma Vergine,
la gloria d'lsraello,
grave di tal portato
da cui promise è nato,
donde era atteso usci.
La mira Madre in poveri
panni il Figliol compose,
e nell'umil presepio
soavemente il pose;
e l'adorò: beata!
innazi al Dio prostrata,
che il puro sen le aprì.
L’Angel del cielo, agli uomini
nunzio di tanta sorte,
non de' potenti volgesi
alle vegliate porte;
ma tra i pastor devoti,
al duro mondo ignoti,
subito in luce appar.
E intorno a lui per l'ampia
notte calati a stuolo,
mille celesti strinsero
il fiammeggiante volo;
e accesi in dolce zelo,
come si canta in cielo
A Dio gloria cantar.
L’allegro inno seguirono,
tornando al firmamento:
tra le varcare nuvole
allontanossi, e lento
il suon sacrato ascese,
fin che più nulla intese
la compagnia fedel.
Senza indugiar, cercarono
l'albergo poveretto
que' fortunati, e videro,
siccome a lor fu detto
videro in panni avvolto,
in un presepe accolto,
vagire il Re del Ciel.
Dormi, o Fanciul; non piangere;
dormi, o Fanciul celeste:
sovra il tuo capo stridere
non osin le tempeste,
use sull'empia terra,
come cavalli in guerra,
correr davanti a Te.
Dormi, o Celeste: i popoli
chi nato sia non sanno;
ma il dì verrà che nobile
retaggio tuo saranno;
che in quell'umil riposo,
che nella polve ascoso,
conosceranno il Re.
Parafrasi
Come un masso di pietra, che cadendo dall’alto di un lungo ripido pendio («lunga erta montana», dove «erta» è un sostantivo) precipita a valle lungo la via scoscesa («scheggiato calle»), e lí batte sul fondo e vi resta immobile («sta»); e resta immobile nella sua inerte («lenta») pesantezza, né per passare di secoli potrà mai piú(«fia che») rivedere il sole delle cime(il sole delle cime, nel paragone, rappresenta la grazia divina che l’uomo ha perduta) su cui stava un tempo («cima antica»), se una potenza («virtude») benefica («amica») non lo trasporterà in alto: cosí giaceva l’uomo discendente da quell’Adamo che aveva commesso il peccato originale («fallo primo»), dal giorno in cui una potente maledizione divina («ineffabile ira promessa»: lo sdegno che Dio gli minacciò espellendolo dal Paradiso terrestre) lo aveva gettato nel fondo del male, da cui l’uomo non poteva piú sollevarsi. Chi mai tra gli uomini, nati con la condanna e l’odio di Dio («nati all’odio»), poteva intercedere presso Dio («Santo inaccessibile») e chiedergli il perdono per l’uomo? E stringere fra uomo e Dio un nuovo patto, fondato sulla Grazia? E strappare l’uomo all’inferno, che, per la colpa originale, aveva ormai fatto di lui una propria preda? Ma è nato Gesú («un Pargolo»), ed egli unisce in sé le due nature, e con lui comincia per l’umanità una nuova era felice: le forze dell’inferno, nemiche all’uomo, tremano, sconfitte, al solo muovere di un suo ciglio, a un solo suo cenno: Egli porte soccorrevole la mano all’uomo, e quello riprende coraggio («si ravviva»), e si rialza, e sale ancora piú in alto di quanto non fosse prima del peccato originale («oltre l’antico onor»). Dai cieli («magioni eteree») scende una fonte di grazia per l’umanità e si distende vivificatrice nel burrone irto di spini («borron de’ triboli»: cioè il mondo, inaridito dal peccato): gli alberi stillano miele, e dove prima vi erano spine («bronchi»), spuntano fiori. O tu, figlio di Dio, generato da Dio eterno ed eterno tu stesso come Lui, chi mai, al di fuori di Dio, potrà vantarsi di essere nato assieme a te? Tu esisti: e tutto il cielo, nella vastità infinita della sua circonferenza («giro»), non ti abbraccia in sé («comprende»): sei stato Tu a crearlo («la tua parola il fe’»). E Tu, che sei quale ho detto, ti sei degnato di rivestire la nostra carne mortale («creata argilla»)? Quale merito degli uomini o quale grazie hanno concesso loro una sorte cosí felice e onorifica? Se ciò è accaduto solo perché nell’intimo della mente per noi imperscrutabile di Dio («in suo consiglio ascoso»), lo sdegno è stato vinto dalla volontà di perdono, bisogna concludere che Dio è immensamente misericordioso. Oggi Egli è nato: a Betlemme («Efrata»), paese («ostello») che già il profeta Michea aveva predetto come patria del Messia («vaticinato»), è salita una nobile Vergine (Maria), onore e gloria d’Israele, incinta di un tal figlio («grave di tal portato»): [il Messia] è nato dalla stirpe da cui aveva promesso di nascere (quella ebraica, come scritto nell’Antico Testamento), è venuto alla luce da dove era atteso (a Betlemme). La mirabile madre coprí («compose») il suo figlio di poveri panni, e lo stese con grazia garbata («soavemente») nell’umile mangiatoia («presepio»), e poi gli si piegò dinanzi adorandolo, prostrata dinanzi a Lui che le era sí figlio, ma era anche quel Dio Padre che aveva reso materno il suo grembo verginale. L’Angelo, che deve annunziare agli uomini un evento di tali conseguenze per essi («tanta sorte»), non si rivolge alle porte dei potenti («vegliate»: sorvegliate da soldati o da servi, indice che erano abitate da potenti), ma appare, folgorante di luce, ai pastori devoti, che il mondo crudele ed egoista («duro») dei potenti ignora. E, sopraggiunti («calati») in gran numero («a stuolo») per la solennità dell’evento che aveva luogo in quella notte («per l’ampia notte»), migliaia di angeli («mille celesti») si strinsero intorno a Lui in quel volo di luce; e, accesi di ardore affettuoso («dolce zelo»), cantarono gloria a Dio come la si canta in cielo. E proseguirono quel canto gioioso anche mentre tornavano in cielo, finché l’armonia, salendo, si perdette, e quel gruppo di pastori devoti («compagnia fedel») non udí piú nulla. Senza indugio, i pastori (definiti «que’ fortunati», perché ebbero la ventura di poter adorare per primi il Cristo) cercarono il misero alloggio [dove Gesú era nato], e videro, come gli angeli avevano detto loro, il Re del Cielo che, adagiato («accolto») in una mangiatoia, emetteva vagiti. Dormi, o Fanciullo (ha qui inizio un’accorata e commovente ‘ninna nanna’, in cui il Manzoni si rivolge direttamente a Gesú neonato nella mangiatoia); non piangere; dormi, o Fanciullo divino: le tempeste, abituate a correre davanti a Te sulla terra peccaminosa («use sull’empia terra […] correr davanti a Te»), come cavalli in guerra, non osino rumoreggiare sopra la tua testa. Dormi, o Divino: i popoli [ancora] non sanno chi è [appena] nato; ma verrà un giorno in cui essi saranno tutti tuoi sudditi («retaggio tuo»), e in cui in questo Fanciullo che ora riposa nell’umile mangiatoia e si nasconde in umiltà(«nella polve») riconosceranno il loro Re.