Amarcord, sant'Anselmo
di Gianfranco Ravasi
in “Il Sole-24 Ore” del 19 aprile 2009 (inserto "Domenica")
«Io non credo in Dio... Detto questo, chi come me si occupa di filosofia immiserirebbe il suo campo d'indagine e isterilirebbe la sua mente se rinunciasse a riflettere su argomenti religiosi.
Quell'oggetto inconcepibile che è Dio non può non chiamare a raccolta tutte le nostre risorse
intellettuali; non esiste grande pensatore che non sia stato spronato ad affrontarlo dando il meglio di sé, sia pure sotto forma di critiche acute e impietose». Così Ermanno Bencivenga, 59 anni, calabrese trapiantato in California, ove insegna filosofia all'università di Irvine, apre il suo significativo, denso (e un po' arduo) saggio sulla
Dimostrazione di Dio, da poco edito presso Mondadori. Non è nostra intenzione presentarlo ora, anche se salutiamo una riflessione "ateologica" seria dopo i libelli irriverenti, vani e vanitosi, gli ateismi "stradali" o l'ultimo negazionismo eroticoedonistico alla Onfray.
Citiamo Bencivenga perché il suo primo capitolo parte dall'analisi dell'argomentazione di Anselmo d'Aosta sull'esistenza di Dio e dalla relativa replica critica di un altro teologo, come lui monaco benedettino, un certo Gaunilone. Prima abate di Bec in Normandia, ove compose il celebre dittico teologico del Monologion e del Proslogion - transitando dal genere del "soliloquio" a quello del "colloquio" - e poi, con obbedienza sofferta, arcivescovo di Canterbury nel 1093, Anselmo è una delle figure più alte del pensiero medievale, saldamente attestato sul crinale tra filosofia e teologia, tanto da creare dispute tra i suoi esegeti sulla corretta sua collocazione: teologo per Karl Barth, teologo mistico per Anselm Stolz, filosofo per Adolf Kolping, apologeta per Franciscus Salesius Schmitt, "filosofia nell'unità della teologia" quella anselmiana per Gottlieb Söhngen.
Finito nei manuali scolastici per una sua famosa definizione di Dio come id quo maius cogitari
nequit, ossia come l'Essere «di cui non si può pensare nulla di più grande», in realtà la sua
riflessione rivela una grandiosa e ben più complessa architettura, desiderosa di coniugare fede e intelligenza, credere e comprendere, pregare e interrogare, aperta quindi al dialogo con l'«infedele», cioè col non credente, essendo comune la dotazione della mente e del suo retto riflettere (ed è per questo che siamo partiti dal saggio di Bencivenga).
Ebbene, il 21 aprile di quest'anno cade il lX centenario della morte di questo figlio d'Aosta, migrato altrove, e il modo migliore per celebrare questa ricorrenza - che avrà nella città natale il suo apice rituale - sarebbe quello di riproporre le sue opere.
Il progetto dell'Opera omnia anselmiana è stato messo in cantiere dalla Jaca Book, all'interno della sua importante e coraggiosa «Biblioteca di Cultura Medievale», diretta da Inos Biffi e Costante Marabelli. Già sono apparse le Lettere, sia del periodo di Bec sia di quello di Canterbury (1988; 1990; 1993), e le Orazioni e Meditazioni (1997); ora, in un grosso tomo, sempre col patrocinio del Consiglio Regionale della Valle d'Aosta, appaiono i cosiddetti Memorials, cioè "parabole, detti, miracoli" di s. Anselmo raccolti dai suoi discepoli, in particolare i monaci Eadmero, Alessandro e forse Bosone. Come è stato scritto da specialisti anselmiani, abbiamo probabilmente qui «un Anselmo di minore rilevanza e di meno certa autenticità, un Anselmo parziale, come fu ascoltato dagli altri o come gli altri credettero di ascoltare». Tuttavia, il ritratto risultante, ricomposto coi lineamenti dei suoi atti prodigiosi, delle sue parole folgoranti, dei suoi ammonimenti sapienziali ed esistenziali («sui comportamenti umani mediante similitudini»), è sorprendentemente vivace e affascinante.
Infatti, «era nelle conversazioni - osserva l'editor inglese Richard William Southern - che Anselmo faceva l'impressione più potente sui suoi contemporanei, rivelando l'incontro dell'età benedettina con quella scolastica in una personalità di tratto e genio squisiti». È curioso notare, leggendo queste pagine spesso molto gustose, come un genio speculativo quale egli era sapesse trasformarsi in un vigoroso autore popolare, pronto a ricorrere a tutte le risorse della psicologia, dell'immaginario, della simbologia (suggestiva, è quella numerica) e della quotidianità (le professioni sono spesso di scena: medico e paziente, cavaliere, domestiche e matrone, giardiniere, costruttore edile, assistenza sanitaria, cantiniere, governanti, allevatori). Per non parlare poi dei "fioretti" legati ai suoi miracoli, ove si dispiega tutto l'arsenale narrativo della più fantasmagorica agiografia taumaturgica. Si ha, così, un vero e proprio affresco che colloca l'etereo pensatore nella carnalità della sua missione
pastorale e che ci permette di essere spettatori di un mondo pieno di vita e di colori, ben lontano dallo stereotipo (per fortuna sempre più emarginato) di un Medioevo buio, represso e astenico.
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