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Discussione: Tempo di Quaresima : Messaggio del Papa, riflessioni e iniziative varie

  1. #31
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    STAZIONE QUARESIMALE PRESIEDUTA DAL SANTO PADRE NELLA BASILICA DI SANTA SABINA ALL’AVENTINO, 17.02.2010

    Questo pomeriggio - Mercoledì delle Ceneri, giorno di inizio della Quaresima - ha luogo un’assemblea di preghiera nella forma delle "Stazioni" romane, presieduta dal Santo Padre Benedetto XVI.
    Alle ore 16.30, nella Chiesa di Sant’Anselmo all’Aventino, si tiene un momento di preghiera cui fa seguito la processione penitenziale verso la Basilica di Santa Sabina. Alla processione prendono parte i Cardinali, gli Arcivescovi, i Vescovi, i Monaci Benedettini di Sant’Anselmo, i Padri Domenicani di Santa Sabina ed alcuni fedeli.
    Al termine della processione, nella Basilica di Santa Sabina, il Santo Padre Benedetto XVI presiede la Celebrazione Eucaristica con il rito di benedizione e di imposizione delle Ceneri.
    Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia dopo la proclamazione del Santo Vangelo:

    OMELIA DEL SANTO PADRE

    "Tu ami tutte le tue creature, Signore,
    e nulla disprezzi di ciò che hai creato;
    tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni,
    perché tu sei il Signore nostro Dio" (Antifona d’ingresso).

    Venerati Fratelli nell’episcopato,
    cari fratelli e sorelle!

    Con questa commovente invocazione, tratta dal Libro della Sapienza (cfr 11,23-26), la liturgia introduce la celebrazione eucaristica del Mercoledì delle Ceneri. Sono parole che, in qualche modo, aprono l’intero itinerario quaresimale, ponendo a suo fondamento l’onnipotenza d’amore di Dio, la sua assoluta signoria su ogni creatura, che si traduce in indulgenza infinita, animata da costante e universale volontà di vita. In effetti, perdonare qualcuno equivale a dirgli: non voglio che tu muoia, ma che tu viva; voglio sempre e soltanto il tuo bene.

    Questa assoluta certezza ha sostenuto Gesù durante i quaranta giorni trascorsi nel deserto della Giudea, dopo il battesimo ricevuto da Giovanni nel Giordano. Quel lungo tempo di silenzio e di digiuno fu per Lui un abbandonarsi completamente al Padre e al suo disegno d’amore; fu esso stesso un "battesimo", cioè un’"immersione" nella sua volontà, e in questo senso un anticipo della Passione e della Croce. Inoltrarsi nel deserto e rimanervi a lungo, da solo, significava esporsi volontariamente agli assalti del nemico, il tentatore che ha fatto cadere Adamo e per la cui invidia la morte è entrata nel mondo (cfr Sap 2,24); significava ingaggiare con lui la battaglia in campo aperto, sfidarlo senza altre armi che la fiducia sconfinata nell’amore onnipotente del Padre. Mi basta il tuo amore, mi cibo della tua volontà (cfr Gv 4,34): questa convinzione abitava la mente e il cuore di Gesù durante quella sua "quaresima". Non fu un atto di orgoglio, un’impresa titanica, ma una scelta di umiltà, coerente con l’Incarnazione ed il battesimo nel Giordano, nella stessa linea di obbedienza all’amore misericordioso del Padre, che ha "tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito" (Gv 3,16).

    Tutto questo il Signore Gesù lo ha fatto per noi. Lo ha fatto per salvarci, e al tempo stesso per mostrarci la via per seguirlo. La salvezza, infatti, è dono, è grazia di Dio, ma per avere effetto nella mia esistenza richiede il mio assenso, un’accoglienza dimostrata nei fatti, cioè nella volontà di vivere come Gesù, di camminare dietro a Lui. Seguire Gesù nel deserto quaresimale è dunque condizione necessaria per partecipare alla sua Pasqua, al suo "esodo". Adamo fu cacciato dal Paradiso terrestre, simbolo della comunione con Dio; ora, per ritornare a questa comunione e dunque alla vera vita, la vita eterna, bisogna attraversare il deserto, la prova della fede. Non da soli, ma con Gesù! Lui – come sempre – ci ha preceduto e ha già vinto il combattimento contro lo spirito del male. Ecco il senso della Quaresima, tempo liturgico che ogni anno ci invita a rinnovare la scelta di seguire Cristo sulla via dell’umiltà per partecipare alla sua vittoria sul peccato e sulla morte.

    In questa prospettiva si comprende anche il segno penitenziale delle Ceneri, che vengono imposte sul capo di quanti iniziano con buona volontà l’itinerario quaresimale. E’ essenzialmente un gesto di umiltà, che significa: mi riconosco per quello che sono, una creatura fragile, fatta di terra e destinata alla terra, ma anche fatta ad immagine di Dio e destinata a Lui. Polvere, sì, ma amata, plasmata dal suo amore, animata dal suo soffio vitale, capace di riconoscere la sua voce e di rispondergli; libera e, per questo, capace anche di disobbedirgli, cedendo alla tentazione dell’orgoglio e dell’autosufficienza. Ecco il peccato, malattia mortale entrata ben presto ad inquinare la terra benedetta che è l’essere umano. Creato ad immagine del Santo e del Giusto, l’uomo ha perduto la propria innocenza ed ora può ritornare ad essere giusto solo grazie alla giustizia di Dio, la giustizia dell’amore che – come scrive san Paolo – "si è manifestata per mezzo della fede in Cristo" (Rm 3,22). Da queste parole dell’Apostolo ho tratto lo spunto per il mio Messaggio, rivolto a tutti i fedeli in occasione di questa Quaresima: una riflessione sul tema della giustizia alla luce delle Sacre Scritture e del loro compimento in Cristo.

    Anche nelle letture bibliche del Mercoledì delle Ceneri è ben presente il tema della giustizia. Innanzitutto, la pagina del profeta Gioele e il Salmo responsoriale – il Miserere – formano un dittico penitenziale, che mette in risalto come all’origine di ogni ingiustizia materiale e sociale vi sia quella che la Bibbia chiama "iniquità", cioè il peccato, che consiste fondamentalmente in una disobbedienza a Dio, vale a dire una mancanza d’amore. "Sì – confessa il Salmista – le mie iniquità io le riconosco, / il mio peccato mi sta sempre dinanzi. / Contro te, contro te solo ho peccato, / quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto" (Sal 50/51,5-6). Il primo atto di giustizia è dunque riconoscere la propria iniquità, e riconoscere che questa è radicata nel "cuore", nel centro stesso della persona umana. I "digiuni", i "pianti", i "lamenti" (cfr Gl 2,12) ed ogni espressione penitenziale hanno valore agli occhi di Dio solo se sono segno di cuori sinceramente pentiti. Anche il Vangelo, tratto dal "discorso della montagna", insiste sull’esigenza di praticare la propria "giustizia" – elemosina, preghiera, digiuno – non davanti agli uomini, ma solo agli occhi di Dio, che "vede nel segreto" (cfr Mt 6,1-6.16-18). La vera "ricompensa" non è l’ammirazione degli altri, ma l’amicizia con Dio e la grazia che ne deriva, una grazia che dona pace e forza di compiere il bene, di amare anche chi non lo merita, di perdonare chi ci ha offeso.

    La seconda lettura, l’appello di Paolo a lasciarsi riconciliare con Dio (cfr 2 Cor 5,20), contiene uno dei celebri paradossi paolini, che riconduce tutta la riflessione sulla giustizia al mistero di Cristo. Scrive san Paolo: "Colui che non aveva conosciuto peccato – cioè il suo Figlio fatto uomo –, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio" (2 Cor 5,21). Nel cuore di Cristo, cioè nel centro della sua Persona divino-umana, si è giocato in termini decisivi e definitivi tutto il dramma della libertà. Dio ha portato alle estreme conseguenze il proprio disegno di salvezza, rimanendo fedele al suo amore anche a costo di consegnare il Figlio unigenito alla morte, e alla morte di croce. Come ho scritto nel Messaggio quaresimale, "qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana … Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia «più grande», che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10)".

    Cari fratelli e sorelle, la Quaresima allarga il nostro orizzonte, ci orienta verso la vita eterna. In questa terra siamo in pellegrinaggio, "non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura" dice la Lettera agli Ebrei (Eb 13,14). La Quaresima fa capire la relatività dei beni di questa terra e così ci rende capaci alle rinunce necessarie, liberi per fare il bene. Apriamo la terra alla luce del Cielo, alla presenza di Dio in mezzo a noi. Amen

    [00241-01.01] [Testo originale: Italiano]

    [B0104-XX.02]

    fonte: Sala Stampa della Santa Sede

  2. #32
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    20/02/2010 9.30.07
    La Quaresima di Papa Benedetto: editoriale di padre Lombardi



    Una settimana scandita da momenti che esprimono, nel vissuto quotidiano, ciò che la Quaresima significa spiritualmente. E' quella che ha appena vissuto Bendetto XVI, tra solidarietà verso i poveri - come nella visita all'Ostello della Caritas - e riflessioni sul significato della conversione, come nella liturgia delle Ceneri. Il nostro direttore, padre Federico Lombardi, nel suo editoriale per il settimanale del Centro Televisivo Vaticano "Octava Dies", si sofferma sugli ultimi impegni del Papa cogliendovi un esempio di cosa voglia dire per un cristiano essere in sintonia col periodo quaresimale:

    Nella società secolarizzata molti non sanno più bene che cosa significhi la Quaresima e come la si debba vivere. Se vogliamo una risposta chiara e concreta: basta guardare che cosa fa Papa Benedetto.


    Domenica scorsa è andato all’Ostello della Caritas alla Stazione ferroviaria di Roma. Ha incontrato i poveri della città di cui è vescovo: è stato loro vicino, ha stretto le loro mani, li ha guardati negli occhi con commozione, ha avuto per loro parole di conforto e di speranza. Carità concreta.


    Lunedì e martedì è stato con i vescovi dell’Irlanda. Ha pregato e condiviso le loro riflessioni sulla situazione della Chiesa nel loro Paese, dove si sono verificati tanti peccati e tanti errori, e lo scandalo per gli abusi sessuali anche da parte di sacerdoti ha ferito tante persone e umiliato profondamente la Chiesa. Il Papa li ha esortati a domandare la misericordia di Dio e il dono dello Spirito per il rinnovamento della Chiesa. Conversione e penitenza.


    Mercoledì e giovedì, il Papa ha celebrato la liturgia penitenziale, ricevendo e imponendo le ceneri, e poi si è incontrato con i sacerdoti della sua diocesi per leggere e meditare una pagina della Scrittura. Lo ha fatto con l’abituale profonda intelligenza e sapienza, aiutandoci a ritrovare il gusto - forse perduto - dell’ascolto della Parola di Dio.


    Preghiera e ascolto della Parola, conversione e penitenza, opere della carità. Come diceva Gesù a chi lo interrogava: Và e anche tu fa lo stesso!

    fonte: Radio Vaticana
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  3. #33
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    Una video-catechesi sul significato della quaresima, a partire dal numero simbolico 40.

    [YOUTUBE]http://www.youtube.com/watch?v=a6UkLmjdfoE[/YOUTUBE]

  4. #34
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    INCONTRO CON I PARROCI E I SACERDOTI DELLA DIOCESI DI ROMA , 18.02.2010


    LECTIO DIVINA DEL SANTO PADRE

    Eminenza,
    cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,

    è una tradizione molto gioiosa e anche importante per me poter iniziare la Quaresima sempre con il mio Presbiterio, i Presbiteri di Roma. Così, come Chiesa locale di Roma, ma anche come Chiesa universale, possiamo intraprendere questo cammino essenziale con il Signore verso la Passione, verso la Croce, il cammino pasquale.

    Quest’anno vogliamo meditare i passi della Lettera agli Ebrei ora letti. L’Autore di tale Lettera ha aperto una nuova strada per capire l’Antico Testamento come libro che parla su Cristo. La tradizione precedente aveva visto Cristo soprattutto, essenzialmente, nella chiave della promessa davidica, del vero Davide, del vero Salomone, del vero Re di Israele, vero Re perché uomo e Dio. E l’iscrizione sulla Croce aveva realmente annunciato al mondo questa realtà: adesso c’è il vero Re di Israele, che è il Re del mondo, il Re dei Giudei sta sulla Croce. E’ una proclamazione della regalità di Gesù, dell’adempimento dell’attesa messianica dell’Antico Testamento, la quale, nel fondo del cuore, è un’attesa di tutti gli uomini che aspettano il vero Re, che dà giustizia, amore e fraternità.

    Ma l’Autore della Lettera agli Ebrei ha scoperto una citazione che fino a quel momento non era stata notata: Salmo 110,4 - "tu sei sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek". Ciò significa che Gesù non solo adempie la promessa davidica, l’aspettativa del vero Re di Israele e del mondo, ma realizza anche la promessa del vero Sacerdote. In parte dell’Antico Testamento, soprattutto anche in Qumran, vi sono due linee separate di attesa: il Re e il Sacerdote. L’Autore della Lettera agli Ebrei, scoprendo questo versetto, ha capito che in Cristo sono unite le due promesse: Cristo è il vero Re, il Figlio di Dio – secondo il Salmo 2,7 che egli cita – ma è anche il vero Sacerdote.

    Così tutto il mondo cultuale, tutta la realtà dei sacrifici, del sacerdozio, che è alla ricerca del vero sacerdozio, del vero sacrificio, trova in Cristo la sua chiave, il suo adempimento e, con questa chiave, può rileggere l’Antico Testamento e mostrare come proprio anche la legge cultuale, che dopo la distruzione del Tempio è abolita, in realtà andava verso Cristo; quindi, non è semplicemente abolita, ma rinnovata, trasformata, poiché in Cristo tutto trova il suo senso. Il sacerdozio appare allora nella sua purezza e nella sua verità profonda.

    In questo modo, la Lettera agli Ebrei presenta il tema del sacerdozio di Cristo, Cristo sacerdote, su tre livelli: il sacerdozio di Aronne, quello del Tempio; Melchisedek; e Cristo stesso, come il vero sacerdote. Anche il sacerdozio di Aronne, pur essendo differente da quello di Cristo, pur essendo, per così dire, solo una ricerca, un camminare in direzione di Cristo, comunque è "via" verso Cristo, e già in questo sacerdozio si delineano gli elementi essenziali. Poi Melchisedek - ritorneremo su questo punto – che è un pagano. Il mondo pagano entra nell’Antico Testamento, entra in una figura misteriosa, senza padre, senza madre - dice la Lettera agli Ebrei -, appare semplicemente, e in lui appare la vera venerazione del Dio Altissimo, del Creatore del cielo e della terra. Così anche dal mondo pagano viene l’attesa e la prefigurazione profonda del mistero di Cristo. In Cristo stesso tutto è sintetizzato, purificato e guidato al suo termine, alla sua vera essenza.

    Vediamo ora i singoli elementi, per quanto è possibile, circa il sacerdozio. Dalla Legge, dal sacerdozio di Aronne impariamo due cose, ci dice l’autore della Lettera agli Ebrei: un sacerdote per essere realmente mediatore tra Dio e l’uomo, deve essere uomo. Questo è fondamentale e il Figlio di Dio si è fatto uomo proprio per essere sacerdote, per poter realizzare la missione del sacerdote. Deve essere uomo – ritorneremo su questo punto –, ma non può da se stesso farsi mediatore verso Dio. Il sacerdote ha bisogno di un’autorizzazione, di un’istituzione divina e solo appartenendo alle due sfere – quella di Dio e quella dell’uomo – può essere mediatore, può essere "ponte". Questa è la missione del sacerdote: combinare, collegare queste due realtà apparentemente così separate, cioè il mondo di Dio - lontano da noi, spesso sconosciuto all’uomo - e il nostro mondo umano. La missione del sacerdozio è di essere mediatore, ponte che collega, e così portare l’uomo a Dio, alla sua redenzione, alla sua vera luce, alla sua vera vita.

    Come primo punto, quindi, il sacerdote deve essere dalla parte di Dio, e solamente in Cristo questo bisogno, questa condizione della mediazione è realizzata pienamente. Perciò era necessario questo Mistero: il Figlio di Dio si fa uomo perché ci sia il vero ponte, ci sia la vera mediazione. Gli altri devono avere almeno un’autorizzazione da Dio o, nel caso della Chiesa, il Sacramento, cioè introdurre il nostro essere nell’essere di Cristo, nell’essere divino. Solo con il Sacramento, questo atto divino che ci crea sacerdoti nella comunione con Cristo, possiamo realizzare la nostra missione. E questo mi sembra un primo punto di meditazione per noi: l’importanza del Sacramento. Nessuno si fa sacerdote da se stesso; solo Dio può attirarmi, può autorizzarmi, può introdurmi nella partecipazione al mistero di Cristo; solo Dio può entrare nella mia vita e prendermi in mano. Questo aspetto del dono, della precedenza divina, dell’azione divina, che noi non possiamo realizzare, questa nostra passività - essere eletti e presi per mano da Dio - è un punto fondamentale nel quale entrare. Dobbiamo ritornare sempre al Sacramento, ritornare a questo dono nel quale Dio mi dà quanto io non potrei mai dare: la partecipazione, la comunione con l’essere divino, col sacerdozio di Cristo.

    Rendiamo questa realtà anche un fattore pratico della nostra vita: se è così, un sacerdote deve essere realmente un uomo di Dio, deve conoscere Dio da vicino, e lo conosce in comunione con Cristo. Dobbiamo allora vivere questa comunione e la celebrazione della Santa Messa, la preghiera del Breviario, tutta la preghiera personale, sono elementi dell’essere con Dio, dell’essere uomini di Dio. Il nostro essere, la nostra vita, il nostro cuore devono essere fissati in Dio, in questo punto dal quale non dobbiamo uscire, e ciò si realizza, si rafforza giorno per giorno, anche con brevi preghiere nelle quali ci ricolleghiamo con Dio e diventiamo sempre più uomini di Dio, che vivono nella sua comunione e possono così parlare di Dio e guidare a Dio.

    L’altro elemento è che il sacerdote deve essere uomo. Uomo in tutti i sensi, cioè deve vivere una vera umanità, un vero umanesimo; deve avere un’educazione, una formazione umana, delle virtù umane; deve sviluppare la sua intelligenza, la sua volontà, i suoi sentimenti, i suoi affetti; deve essere realmente uomo, uomo secondo la volontà del Creatore, del Redentore, perché sappiamo che l’essere umano è ferito e la questione di "che cosa sia l’uomo" è oscurata dal fatto del peccato, che ha leso la natura umana fino nelle sue profondità. Così si dice: "ha mentito", "è umano"; "ha rubato", "è umano"; ma questo non è il vero essere umano. Umano è essere generoso, è essere buono, è essere uomo della giustizia, della prudenza vera, della saggezza. Quindi uscire, con l’aiuto di Cristo, da questo oscuramento della nostra natura per giungere al vero essere umano ad immagine di Dio, è un processo di vita che deve cominciare nella formazione al sacerdozio, ma che deve realizzarsi poi e continuare in tutta la nostra esistenza. Penso che le due cose vadano fondamentalmente insieme: essere di Dio e con Dio ed essere realmente uomo, nel vero senso che ha voluto il Creatore plasmando questa creatura che siamo noi.

    Essere uomo: la Lettera agli Ebrei fa una sottolineatura della nostra umanità che ci sorprende, perché dice: deve essere uno con "compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo rivestito di debolezza" (5,2) e poi - molto più forte ancora – "nei giorni della sua vita terrena, egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime a Dio che poteva salvarlo da morte e per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito" (5,7). Per la Lettera agli Ebrei elemento essenziale del nostro essere uomo è la compassione, è il soffrire con gli altri: questa è la vera umanità. Non è il peccato, perché il peccato non è mai solidarietà, ma è sempre desolidarizzazione, è un prendere la vita per me stesso, invece di donarla. La vera umanità è partecipare realmente alla sofferenza dell’essere umano, vuol dire essere un uomo di compassione – metriopathein, dice il testo greco – cioè essere nel centro della passione umana, portare realmente con gli altri le loro sofferenze, le tentazioni di questo tempo: "Dio dove sei tu in questo mondo?".

    Questa umanità del sacerdote non risponde all’ideale platonico e aristotelico, secondo il quale il vero uomo sarebbe colui che vive solo nella contemplazione della verità, e così è beato, felice, perché ha solo amicizia con le cose belle, con la bellezza divina, ma "i lavori" li fanno altri. Questa è una supposizione, mentre qui si suppone che il sacerdote entri come Cristo nella miseria umana, la porti con sé, vada alle persone sofferenti, se ne occupi, e non solo esteriormente, ma interiormente prenda su di sé, raccolga in se stesso la "passione" del suo tempo, della sua parrocchia, delle persone a lui affidate. Così Cristo ha mostrato il vero umanesimo. Certo il suo cuore è sempre fisso in Dio, vede sempre Dio, intimamente è sempre in colloquio con Lui, ma Egli porta, nello stesso tempo, tutto l’essere, tutta la sofferenza umana entra nella Passione. Parlando, vedendo gli uomini che sono piccoli, senza pastore, Egli soffre con loro e noi sacerdoti non possiamo ritirarci in un Elysium, ma siamo immersi nella passione di questo mondo e dobbiamo, con l’aiuto di Cristo e in comunione con Lui, cercare di trasformarlo, di portarlo verso Dio.

    Proprio questo va detto, con il seguente testo realmente stimolante: "preghiere e suppliche offrì con forti grida e lacrime" (Eb 5,7). Questo non è solo un accenno all’ora dell’angoscia sul Monte degli Ulivi, ma è un riassunto di tutta la storia della passione, che abbraccia l’intera vita di Gesù. Lacrime: Gesù piangeva davanti alla tomba di Lazzaro, era realmente toccato interiormente dal mistero della morte, dal terrore della morte. Persone perdono il fratello, come in questo caso, la mamma e il figlio, l’amico: tutta la terribilità della morte, che distrugge l’amore, che distrugge le relazioni, che è un segno della nostra finitezza, della nostra povertà. Gesù è messo alla prova e si confronta fino nel profondo della sua anima con questo mistero, con questa tristezza che è la morte, e piange. Piange davanti a Gerusalemme, vedendo la distruzione della bella città a causa della disobbedienza; piange vedendo tutte le distruzioni della storia nel mondo; piange vedendo come gli uomini distruggono se stessi e le loro città nella violenza, nella disobbedienza.

    Gesù piange, con forti grida. Sappiamo dai Vangeli che Gesù ha gridato dalla Croce, ha gridato: "Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mc 15,34; cfr Mt 27,46), e ha gridato ancora una volta alla fine. E questo grido risponde ad una dimensione fondamentale dei Salmi: nei momenti terribili della vita umana, molti Salmi sono un forte grido a Dio: "Aiutaci, ascoltaci!". Proprio oggi, nel Breviario, abbiamo pregato in questo senso: Dove sei tu Dio? "Siamo venduti come pecore da macello" (Sal 44,12). Un grido dell’umanità sofferente! E Gesù, che è il vero soggetto dei Salmi, porta realmente questo grido dell’umanità a Dio, alle orecchie di Dio: "Aiutaci e ascoltaci!". Egli trasforma tutta la sofferenza umana, prendendola in se stesso, in un grido alle orecchie di Dio.

    E così vediamo che proprio in questo modo realizza il sacerdozio, la funzione del mediatore, trasportando in sé, assumendo in sé la sofferenza e la passione del mondo, trasformandola in grido verso Dio, portandola davanti agli occhi e nelle mani di Dio, e così portandola realmente al momento della Redenzione.

    In realtà la Lettera agli Ebrei dice che "offrì preghiere e suppliche", "grida e lacrime" (5,7). E’ una traduzione giusta del verbo prospherein, che è una parola cultuale ed esprime l’atto dell’offerta dei doni umani a Dio, esprime proprio l’atto dell’offertorio, del sacrificio. Così, con questo termine cultuale applicato alle preghiere e lacrime di Cristo, dimostra che le lacrime di Cristo, l’angoscia del Monte degli Ulivi, il grido della Croce, tutta la sua sofferenza non sono una cosa accanto alla sua grande missione. Proprio in questo modo Egli offre il sacrificio, fa il sacerdote. La Lettera agli Ebrei con questo "offrì", prospherein, ci dice: questa è la realizzazione del suo sacerdozio, così porta l’umanità a Dio, così si fa mediatore, così si fa sacerdote.

    Diciamo, giustamente, che Gesù non ha offerto a Dio qualcosa, ma ha offerto se stesso e questo offrire se stesso si realizza proprio in questa compassione, che trasforma in preghiera e in grido al Padre la sofferenza del mondo. In questo senso anche il nostro sacerdozio non si limita all’atto cultuale della Santa Messa, nel quale tutto viene messo nelle mani di Cristo, ma tutta la nostra compassione verso la sofferenza di questo mondo così lontano da Dio, è atto sacerdotale, è prospherein, è offrire. In questo senso mi sembra che dobbiamo capire ed imparare ad accettare più profondamente le sofferenze della vita pastorale, perché proprio questo è azione sacerdotale, è mediazione, è entrare nel mistero di Cristo, è comunicazione col mistero di Cristo, molto reale ed essenziale, esistenziale e poi sacramentale.

    Una seconda parola in questo contesto è importante. Viene detto che Cristo così – tramite questa obbedienza – è reso perfetto, in greco teleiotheis (cfr Eb 5,8-9). Sappiamo che in tutta la Torah, cioè in tutta la legislazione cultuale, la parola teleion, qui usata, indica l’ordinazione sacerdotale. Cioè la Lettera agli Ebrei ci dice che proprio facendo questo Gesù è stato fatto sacerdote, si è realizzato il suo sacerdozio. La nostra ordinazione sacerdotale sacramentale va realizzata e concretizzata esistenzialmente, ma anche in modo cristologico, proprio in questo portare il mondo con Cristo e a Cristo e, con Cristo, a Dio: così diventiamo realmente sacerdoti, teleiotheis. Quindi il sacerdozio non è una cosa per alcune ore, ma si realizza proprio nella vita pastorale, nelle sue sofferenze e nelle sue debolezze, nelle sue tristezze ed anche nelle gioie, naturalmente. Così diventiamo sempre più sacerdoti in comunione con Cristo.

    La Lettera agli Ebrei riassume, infine, tutta questa compassione nella parola hupakoen, obbedienza: tutto questo è obbedienza. E’ una parola che non piace a noi, nel nostro tempo. Obbedienza appare come un’alienazione, come un atteggiamento servile. Uno non usa la sua libertà, la sua libertà si sottomette ad un’altra volontà, quindi uno non è più libero, ma è determinato da un altro, mentre l’autodeterminazione, l’emancipazione sarebbe la vera esistenza umana. Invece della parola "obbedienza", noi vogliamo come parola chiave antropologica quella di "libertà". Ma considerando da vicino questo problema, vediamo che le due cose vanno insieme: l’obbedienza di Cristo è conformità della sua volontà con la volontà del Padre; è un portare la volontà umana alla volontà divina, alla conformazione della nostra volontà con la volontà di Dio.

    San Massimo il Confessore, nella sua interpretazione del Monte degli Ulivi, dell’angoscia espressa proprio nella preghiera di Gesù, "non la mia, ma la tua volontà", ha descritto questo processo, che Cristo porta in sé come vero uomo, con la natura, la volontà umana; in questo atto - "non la mia, ma la tua volontà" – Gesù riassume tutto il processo della sua vita, del portare, cioè, la vita naturale umana alla vita divina e in questo modo trasformare l’uomo: divinizzazione dell’uomo e così redenzione dell’uomo, perché la volontà di Dio non è una volontà tirannica, non è una volontà che sta fuori del nostro essere, ma è proprio la volontà creatrice, è proprio il luogo dove troviamo la nostra vera identità.

    Dio ci ha creati e siamo noi stessi se siamo conformi con la sua volontà; solo così entriamo nella verità del nostro essere e non siamo alienati. Al contrario, l’alienazione si attua proprio uscendo dalla volontà di Dio, perché in questo modo usciamo dal disegno del nostro essere, non siamo più noi stessi e cadiamo nel vuoto. In verità, l’obbedienza a Dio, cioè la conformità, la verità del nostro essere, è la vera libertà, perché è la divinizzazione. Gesù, portando l’uomo, l’essere uomo, in sé e con sé, nella conformità con Dio, nella perfetta obbedienza, cioè nella perfetta conformazione tra le due volontà, ci ha redenti e la redenzione è sempre questo processo di portare la volontà umana nella comunione con la volontà divina. E’ un processo sul quale preghiamo ogni giorno: "sia fatta la tua volontà". E vogliamo pregare realmente il Signore, perché ci aiuti a vedere intimamente che questa è la libertà, e ad entrare, così, con gioia in questa obbedienza e a "raccogliere" l’essere umano per portarlo – con il nostro esempio, con la nostra umiltà, con la nostra preghiera, con la nostra azione pastorale – nella comunione con Dio.

    Continuando la lettura, segue una frase difficile da interpretare. L’Autore della Lettera agli Ebrei dice che Gesù ha pregato fortemente, con grida e lacrime, Dio che poteva salvarlo dalla morte, e, per il suo pieno abbandono, venne esaudito (cfr 5,7). Qui vorremmo dire: "No, non è vero, non è stato esaudito, è morto". Gesù ha pregato di essere liberato dalla morte, ma non è stato liberato, è morto in modo molto crudele. Perciò il grande teologo liberale Harnack ha detto: "Qui manca un no", deve essere scritto: "Non è stato esaudito" e Bultmann ha accettato questa interpretazione. Però questa è una soluzione che non è esegesi, ma è una violenza al testo. In nessuno dei manoscritti appare "non", ma "è stato esaudito"; quindi dobbiamo imparare a capire che cosa significhi questo "essere esaudito", nonostante la Croce.

    Io vedo tre livelli per capire questa espressione. In un primo livello si può tradurre il testo greco così: "è stato redento dalla sua angoscia" e in questo senso, Gesù è esaudito. Sarebbe, quindi, un accenno a quanto ci racconta san Luca che "un angelo ha rafforzato Gesù" (cfr Lc 22,43), in modo che, dopo il momento dell’angoscia, potesse andare diritto e senza timore verso la sua ora, come ci descrivono i Vangeli, soprattutto quello di san Giovanni. Sarebbe l’esaudimento, nel senso che Dio gli dà la forza di portare tutto questo peso e così è esaudito. Ma a me sembra che sia una risposta non del tutto sufficiente. Esaudito in senso più profondo – Padre Vanhoye l’ha sottolineato – vuol dire: "è stato redento dalla morte", ma non per il momento, per quel momento, ma per sempre, nella Risurrezione: la vera risposta di Dio alla preghiera di essere redento dalla morte è la Risurrezione e l’umanità viene redenta dalla morte proprio nella Risurrezione, che è la vera guarigione delle nostre sofferenze, del mistero terribile della morte.

    Qui è già presente un terzo livello di comprensione: la Risurrezione di Gesù non è solo un avvenimento personale. Mi sembra che sia di aiuto tenere presente il breve testo nel quale san Giovanni, nel Capitolo 12 del suo Vangelo, presenta e racconta, in modo molto riassuntivo, il fatto del Monte degli Ulivi. Gesù dice: "La mia anima è turbata" (Gv 12, 27), e, in tutta l’angoscia del Monte degli Ulivi, che cosa dirò?: "O salvami da questa ora, o glorifica il tuo nome" (cfr Gv 12,27-28). E’ la stessa preghiera che troviamo nei Sinottici: "Se possibile salvami, ma sia fatta la tua volontà" (cfr Mt 26,42; Mc 14,36; Lc 22,42), che nel linguaggio giovanneo appare appunto: "O salvami, o glorifica". E Dio risponde: "Ti ho glorificato e ti glorificherò in futuro" (cfr Gv 12,28). Questa è la risposta, l’esaudire divino: glorificherò la Croce; è la presenza della gloria divina, perché è l’atto supremo dell’amore. Nella Croce, Gesù è elevato su tutta la terra e attira la terra a sé; nella Croce appare adesso il "Kabod", la vera gloria divina del Dio che ama fino alla Croce e così trasforma la morte e crea la Resurrezione.

    La preghiera di Gesù è stata esaudita, nel senso che realmente la sua morte diventa vita, diventa il luogo da dove redime l’uomo, da dove attira l’uomo a sé. Se la risposta divina in Giovanni dice: "ti glorificherò", significa che questa gloria trascende e attraversa tutta la storia sempre e di nuovo: dalla tua Croce, presente nell’Eucaristia, trasforma la morte in gloria. Questa è la grande promessa che si realizza nella Santa Eucaristia, che apre sempre di nuovo il cielo. Essere servitore dell’Eucaristia è, quindi, profondità del mistero sacerdotale.

    Ancora una breve parola, almeno su Melchisedek. E’ una figura misteriosa che entra in Genesi 14 nella storia sacra: dopo la vittoria di Abramo su alcuni Re, appare il Re di Salem, di Gerusalemme, Melchisedek, e porta pane e vino. Una storia non commentata e un po’ incomprensibile, che appare nuovamente solo nel salmo 110, come già detto, ma si capisce che poi l’Ebraismo, lo Gnosticismo e il Cristianesimo abbiano voluto riflettere profondamente su questa parola e abbiano creato le loro interpretazioni. La Lettera agli Ebrei non fa speculazione, ma riporta soltanto quanto dice la Scrittura e sono diversi elementi: è Re di giustizia, abita nella pace, è Re da dove è la pace, venera e adora il Dio Altissimo, il Creatore del cielo e della terra, e porta pane e vino (cfr Eb 7,1-3; Gen 14,18-20). Non viene commentato che qui appare il Sommo Sacerdote del Dio Altissimo, Re della pace, che adora con pane e vino il Dio Creatore del cielo e della terra. I Padri hanno sottolineato che è uno dei santi pagani dell’Antico Testamento e ciò mostra che anche dal paganesimo c’è una strada verso Cristo e i criteri sono: adorare il Dio Altissimo, il Creatore, coltivare giustizia e pace, e venerare Dio in modo puro. Così, con questi elementi fondamentali, anche il paganesimo è in cammino verso Cristo, rende, in un certo modo, presente la luce di Cristo.

    Nel canone romano, dopo la Consacrazione, abbiamo la preghiera supra quae, che menziona alcune prefigurazioni di Cristo, del suo sacerdozio e del suo sacrificio: Abele, il primo martire, con il suo agnello; Abramo, che sacrifica nell’intenzione il figlio Isacco, sostituito dall’agnello dato da Dio; e Melchisedek, Sommo Sacerdote del Dio Altissimo, che porta pane e vino. Questo vuol dire che Cristo è la novità assoluta di Dio e, nello stesso tempo, è presente in tutta la storia, attraverso la storia, e la storia va incontro a Cristo. E non solo la storia del popolo eletto, che è la vera preparazione voluta da Dio, nella quale si rivela il mistero di Cristo, ma anche dal paganesimo si prepara il mistero di Cristo, vi sono vie verso Cristo, il quale porta tutto in sé.

    Questo mi sembra importante nella celebrazione dell’Eucaristia: qui è raccolta tutta la preghiera umana, tutto il desiderio umano, tutta la vera devozione umana, la vera ricerca di Dio, che si trova finalmente realizzata in Cristo. Infine va detto che adesso è aperto il cielo, il culto non è più enigmatico, in segni relativi, ma è vero, perché il cielo è aperto e non si offre qualcosa, ma l’uomo diventa uno con Dio e questo è il vero culto. Così dice la Lettera agli Ebrei: "il nostro sacerdote sta alla destra del trono, del santuario, della vera tenda, che il Signore Dio stesso ha costruito" (cfr 8,1-2).

    Ritorniamo al punto che Melchisedek è Re di Salem. Tutta la tradizione davidica si è richiamata a questo, dicendo: "Qui è il luogo, Gerusalemme è il luogo del vero culto, la concentrazione del culto a Gerusalemme viene già dai tempi abramici, Gerusalemme è il vero luogo della venerazione giusta di Dio".

    Facciamo un nuovo passo: la vera Gerusalemme, il Salem di Dio, è il Corpo di Cristo, l’Eucaristia è la pace di Dio con l’uomo. Sappiamo che san Giovanni, nel Prologo, chiama l’umanità di Gesù "la tenda di Dio", eskenosen en hemin (Gv 1,14). Qui Dio stesso ha creato la sua tenda nel mondo e questa tenda, questa nuova, vera Gerusalemme è, nello stesso tempo sulla terra e in cielo, perché questo Sacramento, questo sacrificio si realizza sempre tra di noi e arriva sempre fino al trono della Grazia, alla presenza di Dio. Qui è la vera Gerusalemme, al medesimo tempo, celeste e terrestre, la tenda, che è il Corpo di Dio, che come Corpo risorto rimane sempre Corpo e abbraccia l’umanità e, nello stesso tempo, essendo Corpo risorto, ci unisce con Dio. Tutto questo si realizza sempre di nuovo nell’Eucaristia. E noi da sacerdoti siamo chiamati ad essere ministri di questo grande Mistero, nel Sacramento e nella vita. Preghiamo il Signore che ci faccia capire sempre meglio questo Mistero, di vivere sempre meglio questo Mistero e così offrire il nostro aiuto affinché il mondo si apra a Dio, affinché il mondo sia redento. Grazie

    [00242-01.01]

    [B0105-XX.02]

    fonte: Sala Stampa della Santa Sede

  5. #35
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    Messaggio del Papa per la campagna della fraternità ecumenica 2010 in Brasile

    Liberi dalla schiavitù del denaro
    per riconciliarsi con Dio

    "Riconciliare le persone con Dio, aiutandole a liberarsi dalla schiavitù del denaro": è questo l'obiettivo che si propone quest'anno la campagna della fraternità ecumenica in Brasile. Per l'occasione Benedetto XVI ha inviato al presidente della Conferenza episcopale del Paese un messaggio nel quale ricorda, tra l'altro, che "la schiavitù del denaro e l'ingiustizia hanno origine nel cuore umano" e invita perciò a "perseverare nella testimonianza dell'amore di Dio" offrendo "l'unico Bene che può saziare il cuore della gente". L'uomo infatti - assicura - "come e più del pane, ha bisogno di Dio".


    Ao Venerado Irmão
    D. Geraldo Lyrio Rocha
    Presidente da cnbb
    e Arcebispo de Mariana (mg)

    Com a quarta-feira de cinzas, volta aquele tempo favorável de salvação, que é a Quaresma, com seu apelo insistente: "Reconciliai-vos com Deus" (2 Cor 6, 2); brado este, que deve ressoar nos lábios daqueles que anunciam a Palavra de Deus: "Encarregarei os meus ministros de anunciar aos pecadores que estou sempre pronto a recebê-los, que a minha misericórdia é infinita" (Carta para a Proclamação de um Ano Sacerdotal, 16/VI/2009). Estes sentimentos divinos foram confiados ao Santo Cura d'Ars que, no seu tempo, soube transformar o coração e a vida de muitas pessoas, porque conseguiu fazer-lhes sentir o amor misericordioso do Senhor.
    Eu desejo o mesmo sucesso às Igrejas e Comunidades eclesiais no Brasil que, neste ano, decidiram unir seus esforços para reconciliar as pessoas com Deus, ajudando-as a libertar-se da escravidão ao dinheiro. É que, como lembra a Campanha da Fraternidade Ecumênica de 2010 - citando palavras de Jesus - "vocês não podem servir a Deus e ao dinheiro". Alegrando-me com tal propósito de conversão, recordo que a escravidão ao dinheiro e a injustiça "tem origem no coração do homem, onde se encontram os germes de uma misteriosa conivência com o mal" (Mensagem para a Quaresma de 2010, 30/X/2009). Por isso, encorajo-vos a perseverar no testemunho do amor de Deus, do Filho de Deus que Se fez homem, do homem agraciado com a vida de Deus, do único Bem que pode saciar o nosso coração, pois, "mais do que de pão, [o homem] de fato precisa de Deus" (Ibid.). Conseguireis assim, fazer frente ao "deserto interior" do qual falei no início do meu ministério petrino, convidando a Igreja, no seu conjunto, a "pôr-se a caminho, para conduzir as pessoas fora do deserto, para lugares da vida, da amizade com o Filho de Deus, para Aquele que dá a vida, a vida em plenitude. (...) Nós existimos para mostrar Deus aos homens. E só onde se vê Deus, começa verdadeiramente a vida" (Homilia, 24/IV/2005). Se "a boca fala daquilo que o coração está cheio" (Mt 12, 34), podeis conhecer vosso coração a partir das vossas palavras. "Reconciliai-vos com Deus", de modo que as vossas palavras sirvam sobretudo para falar de Deus e a Deus.
    Implorando as maiores bênçãos de Deus sobre a Campanha da Fraternidade Ecumênica de 2010, aproveito a ocasião para enviar a meus irmãos e amigos do Brasil cordiais saudações com votos de todo bem em Jesus Cristo, único Salvador de todos!
    Vaticano, 8 de fevereiro de 2010.

    BENEDICTUS PP.XVI



    Di seguito una nostra traduzione italiana del messaggio del Papa.


    Al venerato Fratello
    D. Geraldo Lyrio Rocha
    Presidente della Cnbb
    e Arcivescovo di Mariana (mg)

    Con il mercoledì delle ceneri torna quel tempo favorevole di salvezza che è la Quaresima, con il suo appello insistente: "Lasciatevi riconciliare con Dio" (2 Cor 5, 20); grido questo, che deve risuonare sulle labbra di coloro che annunciano la Parola di Dio: "Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che sono sempre pronto a riceverli, che la mia misericordia è infinita" (Lettera per la Proclamazione di un Anno Sacerdotale, 16/VI/2009). Questi sentimenti divini furono affidati al Santo Curato d'Ars, che, nel suo tempo, seppe trasformare il cuore e la vita di molte persone, perché riuscì a far sentire loro l'amore misericordioso del Signore.
    Auspico lo stesso successo alle Chiese e alle Comunità ecclesiali in Brasile che, in questo anno, hanno deciso di unire i loro sforzi per riconciliare le persone con Dio, aiutandole a liberarsi dalla schiavitù del denaro. Infatti, come ricorda la Campagna della Fraternità Ecumenica 2010 - citando le parole di Gesù - "non potete servire Dio e il denaro". Rallegrandomi per questo proposito di conversione, ricordo che la schiavitù del denaro e l'ingiustizia hanno "origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male" (Messaggio per la Quaresima 2010, 30/X/2009). Per questo, vi incoraggio a perseverare nella testimonianza dell'amore di Dio, del Figlio di Dio che si è fatto uomo, dell'uomo che ha ricevuto la grazia delle vita di Dio, dell'unico Bene che può saziare il cuore della gente, poiché "come e più del pane, (l'uomo) ha infatti bisogno di Dio" (Ibidem). Riuscirete così a far fronte al "deserto interiore" di cui ho parlato all'inizio del mio ministero petrino, invitando la Chiesa, nel suo insieme, a "mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l'amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza (...) Noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita" (Omelia, 24/IV/2005). Se "la bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda" (Matteo 12, 34), potete conoscere il vostro cuore a partire dalle vostre parole. "Riconciliatevi con Dio", di modo che le vostre parole servano soprattutto per parlare di Dio e a Dio.
    Nell'implorare le più grandi benedizioni di Dio sulla Campagna della Fraternità Ecumenica 2010, colgo l'occasione per inviare ai miei fratelli e amici del Brasile cordiali saluti, con voti di ogni bene in Gesù Cristo, unico Salvatore di tutti.

    Dal Vaticano, 8 febbraio 2010

    BENEDETTO XVI

    (©L'Osservatore Romano - 25 febbraio 2010)

  6. #36
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    Da venerdì 5 le prediche quaresimali in Vaticano tenute da padre Raniero Cantalamessa

    I dispensatori dei misteri di Dio

    "Ho certamente messo a dura prova la pazienza dei Pontefici. Bontà loro se ancora mi sopportano...". Padre Raniero Cantalamessa, cappuccino predicatore della Casa Pontificia, risponde così, seraficamente, a quanti mostrano meraviglia per i suoi trentuno anni di predicazione davanti al Papa. "Ho tenuto una media - dice - di otto prediche l'anno. Dunque con quelle che iniziano venerdì 5 arriveremo alle 245 circa, predica più predica meno. Ciò dimostra veramente la pazienza eroica degli ultimi due Pontefici che hanno avuto la bontà di ascoltarmi".
    Il tema scelto per la predicazione quaresimale di quest'anno - "Dispensatori dei misteri di Dio": il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti - pone la riflessione sulla scia di quella proposta per lo scorso periodo d'Avvento. La base è tratta da un testo di san Paolo, quello in cui l'apostolo scrive, nella prima lettera ai Corinzi "Ognuno ci consideri come servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio". "Nel periodo d'Avvento - dice padre Raniero - ho proposto una meditazione sulla prima parte del testo, cioè sul cosa significa essere servitori di Cristo e in che misura si può essere servitori di Cristo e servitori dello Spirito. Per la Quaresima proporrò di meditare sulla seconda parte, cioè quella che riguarda il sacerdote come amministratore della Parola di Dio, quindi predicatore del Vangelo, dunque evangelizzatore, e ministro dei sacramenti. Nella parola mistero infatti vanno compresi le verità di Dio e i segni sacramentali della grazia".
    Le prediche, come è noto, si svolgeranno nella cappella Redemptoris Mater tutti i venerdì di Quaresima, tranne venerdì 19, solennità di san Giuseppe. Venerdì 5 la meditazione riguarderà la persona di Gesù Cristo, cuore dell'annuncio cristiano. "Verterà soprattutto sulla novità della nuova alleanza - spiega il predicatore - cioè sul cosa ha portato di nuovo Cristo. Rispecchia un po' una mia preoccupazione costante, cioè far vedere come in tutte le cose Cristo rappresenta la novità, è un qualcosa di nuovo e segna un salto di qualità. E dunque nell'annuncio i sacerdoti devono comportarsi proprio come ministri di una nuova alleanza, far capire come sia abissale il passaggio dall'antico al nuovo, quanto sia grande la differenza tra l'annuncio del Cristo e quello di ogni altra cosa. È importante riscoprire questo senso dell'essere sacerdote". E tanto più è importante in un periodo "come quello che stiamo vivendo - aggiunge il cappuccino - che ci vede spesso alle prese con talmente tante problematiche di ordine pratico che si corre concretamente il rischio di perdere di vista certi obiettivi". Dunque è importante che "ogni tanto si torni a riflettere sul fondamento della predicazione cristiana".
    La seconda riflessione, quella che sarà proposta venerdì 12, subirà una piccola modifica. "Ne avevo previste quattro - spiega padre Cantalamessa - invece ne terrò solo 3 perché venerdì 19 coincide con la solennità di san Giuseppe e non ci sarà la predica. Venerdì 12 dunque proporrò una meditazione che ci farà riflettere sul come vivere e come aiutare a vivere il mistero eucaristico".
    La terza meditazione, quella di venerdì 26, "sarà, a Dio piacendo, più esistenziale. Vorrei - dice il predicatore - lasciare un po' la traccia di Paolo per avventurarmi tra quelle che sono le necessità del sacerdote oggi. Come far sì, per esempio, che questo anno sacerdotale sia colto non solo come un momento per riproporre doveri, ideali e quant'altro, quanto piuttosto come occasione per un'analisi coscienziosa di quella che è l'espressione di vita del sacerdote oggi. Dobbiamo avere cioè il coraggio di vivere quest'anno sacerdotale come un periodo di conversione. Ne abbiamo bisogno anche noi sacerdoti, soprattutto alla luce di quanto è accaduto in varie parti del mondo a causa del tradimento, da parte di alcuni, del dovere di fedeltà al mandato ricevuto. Quella conversione che chiediamo ai nostri fedeli, deve riguardare prima di tutto proprio noi sacerdoti".

    (©L'Osservatore Romano - 5 marzo 2010)
    Oboedientia et Pax

  7. #37
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    PRIMA PREDICA DI PADRE CANTALAMESSA PER LA QUARESIMA 2010

    “Misteri di una alleanza nuova”


    CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la prima predica di Quaresima che padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì mattina nella cappella Redemptoris Mater, alla presenza di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori della Curia romana.

    Il tema delle meditazioni di quest'anno è “Dispensatori dei misteri di Dio. Il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti”, in continuità con la riflessione sul ministero episcopale e presbiterale iniziata in Avvento.

    Le due prediche successive avranno luogo il 12 e il 26 marzo.


    * * *

    Il Signore mi concede di essere testimone della grazia straordinaria che si sta rivelando per la Chiesa quest’anno sacerdotale. Non si contano i ritiri del clero che si tengono in varie parti del mondo. A uno di questi ritiri, organizzato a Manila dalla conferenza episcopale delle Filippine, nel gennaio scorso, hanno preso parte 5.500 sacerdoti e 90 vescovi. È stato, a detta del cardinale di Manila, una nuova Pentecoste. Durante un’ora di adorazione guidata, all’invito del predicatore, tutta quella immensa distesa di sacerdoti in bianche vesti ha gridato a una sola voce: “Lord Jesus, we are happy to be your priests”: Signore Gesù, siamo felici di essere tuoi sacerdoti!”. E si vedeva dai volti che non erano solo parole. La stessa esperienza, in numero più ridotto, l’ho vissuta in diversi altri paesi. Tutti mi hanno pregato di trasmettere al Santo Padre il loro grazie e il loro saluto e io lo faccio con gioia in questo momento.

    1. I “misteri” di Dio

    La parola di Dio che ci guida in queste riflessioni per l’anno sacerdotale è 1 Corinzi 4, 1: “Si nos existimet homo, ut ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei”; quello che ognuno deve pensare di noi è che siamo "ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio”. Abbiamo meditato in Avvento la prima parte di questa definizione: il sacerdote come servitore di Cristo, nel potere e nell’unzione dello Spirito Santo. Ci resta, in questa Quaresima, di riflettere sulla seconda parte: il sacerdote come dispensatore dei misteri di Dio. Naturalmente quello che diciamo del sacerdote, vale a maggior ragione per il vescovo che possiede la pienezza del sacerdozio.

    Il termine “misteri” ha due significati fondamentali: il primo è quello di verità nascoste e rivelate da Dio, i divini propositi annunciati velatamente nell’Antico Testamento e rivelati agli uomini nella pienezza dei tempi; il secondo è quello di “segni concreti della grazia”, in pratica i sacramenti. La Lettera agli Ebrei riunisce i due significati nell’espressione: “le cose che riguardano Dio” (ta pros ton Theon, ea que sunt ad Deum); accentua anzi proprio il significato rituale e sacramentale, dicendo che il compito del sacerdote (l’autore parla però qui del sacerdozio in genere, dell’Antico e del Nuovo Testamento) è quello di “offrire doni e sacrifici per i peccati” (Eb 5,1).

    Questo secondo significato si afferma soprattutto nella tradizione della Chiesa. Sacramentum è il termine con cui, nel latino ecclesiastico, viene tradotta la parola mysterion. Sant’Ambrogio scrive due trattati sui riti dell’iniziazione cristiana, visti come compimento di figure e profezie dell’Antico Testamento; uno lo intitola “De sacramentis” e l’altro “De mysteriis”, anche se trattano in pratica lo stesso argomento.

    Ritornando alla parola dell’Apostolo, il primo di questi due significati mette in luce il ruolo del sacerdote nei confronti della parola di Dio, il secondo il suo ruolo nei confronti dei sacramenti. Insieme delineano la fisionomia del sacerdote come testimone della verità di Dio e come ministro della grazia di Cristo, come annunciatore e come sacrificatore.

    Per molti secoli la funzione del sacerdote è stata ridotta quasi esclusivamente al suo ruolo di liturgo e di sacrificatore: “offrire sacrifici e perdonare i peccati”. È stato il Concilio Vaticano II a rimettere in evidenza, accanto alla funzione cultuale, quella di evangelizzatore. In linea con quello che la Lumen gentium aveva detto della funzione dei vescovi di “insegnare” e “santificare”, la Presbyterorum ordinis scrive:

    “Dato che i presbiteri hanno una loro partecipazione nella funzione degli apostoli, ad essi è concessa da Dio la grazia per poter essere ministri di Cristo Gesù fra le nazioni mediante il sacro ministero del Vangelo, affinché le nazioni diventino un'offerta gradita, santificata nello Spirito Santo (Rom 15,16). È infatti proprio per mezzo dell'annuncio apostolico del Vangelo che il popolo di Dio viene convocato e adunato [...] Il loro servizio, che comincia con l'annuncio del Vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal sacrificio di Cristo”[1].

    Delle tre meditazioni di Quaresima (il Venerdì 19 Marzo, si omette la predica per la festa di san Giuseppe) ne dedicheremo una al tema del sacerdote come ministro della parola di Dio, una al sacerdote come ministro dei sacramenti e una più esistenziale, al rinnovamento del sacerdozio mediante la conversione al Signore.

    2. La lettera e lo Spirito

    A partire dal III secolo si nota una tendenza a modellare -nei requisiti, nei riti, nei titoli, nelle vesti - il sacerdozio cristiano su quello levitico dell’Antico Testamento[2]; una tendenza che si riflette in documenti canonici come le Costituzioni apostoliche, la Didascalia siriaca e altre fonti simili. Proprio questa assimilazione esterna, fa sentire più urgente il bisogno di riscoprire, in una occasione come questa, la novità e alterità sostanziale del ministero della nuova alleanza rispetto a quello dell’antica. È l’energica affermazione paolina che vorrei mettere al centro della presente meditazione:

    “La nostra capacità viene da Dio. Egli ci ha anche resi idonei a essere ministri di una nuova alleanza, non di lettera, ma di Spirito; perché la lettera uccide, ma lo Spirito vivifica. Or se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, fu glorioso, al punto che i figli d'Israele non potevano fissare lo sguardo sul volto di Mosè a motivo della gloria, che pur svaniva, del volto di lui, quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito?” (2Cor 3, 5-8).

    Che cosa l’Apostolo intende con l’opposizione lettera – Spirito, lo si deduce da quello che ha scritto poco sopra, parlando della comunità del Nuovo Testamento: “È noto che voi siete una lettera di Cristo, scritta mediante il nostro servizio, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente; non su tavole di pietra, ma su tavole che sono cuori di carne” (2 Cor 3, 3).

    La lettera è dunque la legge mosaica scritta su tavole di pietra e, per estensione ogni legge positiva esteriore all’uomo; lo Spirito è la legge interiore, scritta sui cuori, quella che altrove l’Apostolo definisce “la legge dello Spirito che da la vita in Cristo Gesù e che libera dalla legge del peccato e della morte” (cf. Rom 8, 2).

    Sant’Agostino ha scritto un trattato sul nostro testo – il De Spiritu et littera - che è una pietra miliare nella storia del pensiero cristiano. La novità della nuova alleanza rispetto all’antica, egli spiega, è che Dio non si limita più a comandare all’uomo di fare o non fare, ma fa egli stesso con lui e in lui le cose che gli comanda. “Dove la legge delle opere impera minacciando, la legge della fede impetra credendo…Con la legge delle opere Dio dice all’uomo: ‘Fa’ quello che ti comando’, con la legge della fede l’uomo dice a Dio: ‘Da’ quello che mi comandi’”[3].

    La legge nuova che è lo Spirito è ben più che una “indicazione” di volontà; è un’“azione”, un principio vivo e attivo. La legge nuova è la vita nuova. L’opposizione lettera – Spirito equivale in san Paolo, all’opposizione legge – grazia: “Non siete più sotto la legge, scrive, ma sotto la grazia” (Rom 6,14).

    Anche nell’antica alleanza è presente l’idea di grazia, nel senso di benevolenza, favore e perdono di Dio (la hesed): “Farò grazia a chi vorrò far grazia” (Es 33,19); i salmi sono pieni di questo concetto. Ma ora la parola grazia, charis, ha acquistato un significato nuovo, storico: è la grazia che viene dalla morte e risurrezione di Cristo e che giustifica il peccatore. Non è più solo una benevola disposizione, ma una realtà, uno “stato”: “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi” (Rom 5, 1-2).

    Giovanni descrive il rapporto tra antica e nuova alleanza allo stesso modo di Paolo: “La legge –scrive - è stata data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1, 17).

    Da ciò si deduce che la legge nuova, o dello Spirito, non è, in senso stretto, quella promulgata da Gesù sul monte delle beatitudini, ma quella da lui incisa nei cuori a Pentecoste. I precetti evangelici sono certo più elevati e perfetti di quelli mosaici; tuttavia, da soli, anch’essi sarebbero rimasti inefficaci. Se fosse bastato proclamare la nuova volontà di Dio attraverso il Vangelo, non si spiegherebbe che bisogno c’era che Gesù morisse e che venisse lo Spirito Santo; non si spiega perché il Gesù di Giovanni fa dipendere tutto dalla sua “elevazione”, cioè dalla sua morte di croce (cf. Gv 7, 39; 16, 7-15).

    Gli apostoli sono la prova vivente di ciò. Essi avevano ascoltato dalla viva voce di Cristo tutti i precetti evangelici, per esempio che “chi vuol essere il primo deve farsi l’ultimo e il servo di tutti”, ma fino alla fine li vediamo preoccupati di stabilire chi fosse il più grande fra di loro. Solo dopo la venuta dello Spirito su di loro li vediamo completamente dimentichi di sé e intenti solo a proclamare “le grandi opere di Dio” (cf. At 2, 11).

    Senza la grazia interiore dello Spirito, anche il Vangelo, dunque, anche il comandamento nuovo, sarebbe rimasto legge vecchia, lettera. Riprendendo un pensiero ardito di sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino scrive: “Per lettera si intende ogni legge scritta che resta al di fuori dell’uomo, anche i precetti morali contenuti nel Vangelo; per cui anche la lettera del Vangelo ucciderebbe, se non si aggiungesse, dentro, la grazia della fede che sana”[4]. Ancora più esplicito è ciò che ha scritto un po’ prima: “La legge nuova è principalmente la stessa grazia dello Spirito Santo che è data ai credenti”[5].

    3. Non per costrizione, ma per attrazione

    Ma come agisce, in concreto, questa legge nuova che è lo Spirito? Agisce attraverso l’amore! La legge nuova altro non è se non quello che Gesù chiama il “comandamento nuovo”. Lo Spirito Santo ha scritto la legge nuova nei nostri cuori, infondendo in essi l’amore (Rom 5, 5). Questo amore è l’amore con cui Dio ama noi e con cui, contemporaneamente, fa sì che noi amiamo lui e il prossimo. È una capacità nuova di amare.

    Non è un controsenso parlare dell’amore come di una “legge”? A questa domanda si deve rispondere che vi sono due modi secondo cui l’uomo può essere indotto a fare, o a non fare, una certa cosa: o per costrizione o per attrazione. La legge esterna ve lo induce nel primo modo, per costrizione, con la minaccia del castigo; l’amore ve lo induce nel secondo modo, per attrazione. Ciascuno infatti è attratto da ciò che ama, senza che subisca alcuna costrizione dall’esterno. L’amore è come un “peso” dell’anima che attira verso l’oggetto del proprio piacere, in cui sa di trovare il proprio riposo[6]. La vita cristiana va vissuta per attrazione, non per costrizione.

    L’amore dunque è una legge, “la legge dello Spirito”, nel senso crea nel cristiano un dinamismo che lo spinge a fare tutto ciò che Dio vuole, spontaneamente, perché ha fatto propria la volontà di Dio e ama tutto ciò che Dio ama.

    Che posto ha, ci domandiamo, in questa economia dello Spirito, l’osservanza dei comandamenti? Anche dopo la venuta di Cristo sussiste infatti la legge scritta: ci sono i comandamenti di Dio, il decalogo, ci sono i precetti evangelici; a essi si sono aggiunte, in seguito, le leggi ecclesiastiche. Che senso hanno il Codice di diritto canonico, le regole monastiche, i voti religiosi, tutto ciò, insomma, che indica una volontà oggettivata, che mi si impone dall’esterno? Sono, tali cose, come dei corpi estranei nell’organismo cristiano?

    Ci sono stati, nel corso della storia della Chiesa, dei movimenti che hanno pensato così e hanno rifiutato, in nome della libertà dello Spirito, ogni legge, tanto da chiamarsi, appunto, movimenti “anomisti”, ma essi sono stati sempre sconfessati dall’autorità della Chiesa e dalla stessa coscienza cristiana. La risposta cristiana a questo problema ci viene dal Vangelo. Gesù dice di non essere venuto ad “abolire la legge”, ma a “darle compimento” (cf Mt 5, 17). E qual è il “compimento” della legge? “Pieno compimento della legge – risponde l’Apostolo – è l’amore!” (Rom 13, 10). Dal comandamento dell’amore – dice Gesù – dipendono tutta la legge e i profeti (cf Mt 22, 40).

    L’obbedienza diventa così la prova che si vive sotto la grazia. “Se mi amate, osservate i miei comandamenti” (Gv 14,15). L’amore, allora, non sostituisce la legge, ma la osserva, la “compie”. Nella profezia di Ezechiele si attribuiva precisamente al dono futuro dello Spirito e del cuore nuovo, la possibilità di osservare la legge di Dio: “Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò mettere in pratica le mie leggi” (Ez 36, 27). “È stata data la legge –scrive lapidariamente Agostino – perché si cercasse la grazia ed è stata data la grazia perché si osservasse la legge” [7].

    4. Attualità del messaggio della grazia

    Fin qui le conseguenze che il messaggio paolino sulla nuova alleanza può avere sul modo di concepire e vivere la vita cristiana. In questa occasione vorrei però mettere in evidenza soprattutto la luce che esso getta sul problema dell’evangelizzazione nel mondo attuale e del dialogo interreligioso e, di conseguenza, sul ruolo del sacerdote come ministro della verità di Dio.

    Agostino scrisse il suo trattato su La lettera e lo Spirito per combattere la tesi pelagiana secondo cui per salvarsi è sufficiente che Dio ci abbia creati, dotati del libero arbitrio e dato una legge che ci indica la sua volontà. In pratica, la tesi che l’uomo può salvarsi da solo e che la venuta di Cristo è, certo, un aiuto straordinario, ma non indispensabile per la salvezza.

    Si può discutere – e oggi si discute tra gli studiosi – se il santo abbia interpretato correttamente il pensiero del monaco Pelagio. Ma questo non dovrebbe sorprenderci. I Padri che si sono trovati a combattere delle eresie hanno spesso esplicitato quelle che (dal loro punto di vista!) erano le implicazioni logiche di una certa dottrina, senza tener conto sempre del punto di vista e del linguaggio diverso dell’avversario. Erano più preoccupati della dottrina che delle persone, della verità dogmatica che di quella storica. Agostino, anzi, si mostra assai più rispettoso e cortese nei riguardi di Pelagio di quanto non lo fosse, per esempio, Cirillo d’Alessandria nei confronti di Nestorio.

    La rivalutazione moderna di autori come Pelagio o Nestorio non significa dunque minimamente rivalutazione del pelagianesimo o del nestorianesimo. Questa distinzione ha contribuito, in tempi recenti, al ristabilimento della comunione con le chiese cosiddette nestoriane o monofisite d’oriente.

    Tutto questo, però, ci interessa relativamente. La cosa importante da ritenere è che Agostino ha ragione sul problema principale: per salvarsi non basta la natura, il libero arbitrio e la guida della legge, occorre la grazia, cioè occorre Cristo. Pensare diversamente significherebbe rendere superflua la sua venuta e con essa la sua morte e la redenzione; significherebbe considerare Cristo un esempio di vita, non “causa di salvezza eterna per chiunque crede” (Eb 5, 9).

    È su questo punto che il pensiero di Agostino – e prima di lui quello di Paolo – si rivela di una straordinaria attualità. Quello che, secondo l’Apostolo, distingue la nuova dall’antica alleanza, lo Spirito dalla lettera, la grazia dalla legge, fatte le debite distinzioni, è esattamente ciò che distingue oggi il cristianesimo da ogni altra religione.

    Le forme sono cambiante, ma la sostanza è la stessa. “Opera della legge”, o opera dell’uomo, è ogni pratica umana, quando da essa si fa dipendere la propria salvezza, sia, questa, concepita come comunione con Dio, o come comunione con se stessi e sintonia con le energie dell’universo. Il presupposto è lo stesso: Dio non si dona, lo si conquista!

    Possiamo illustrare la differenza così. Ogni religione umana o filosofia religiosa comincia con il dire all’uomo quello che deve fare per salvarsi: i doveri, le opere, siano esse opere ascetiche esteriori o cammini speculativi verso il proprio io interiore, il Tutto o il Nulla. Il cristianesimo non comincia dicendo all’uomo quello che deve fare, ma quello che Dio ha fatto per lui. Gesù non cominciò a predicare dicendo: “Convertitevi e credete al vangelo affinché il Regno venga a voi”; cominciò dicendo: “Il regno di Dio è venuto tra voi: convertitevi e credete al vangelo”. Non prima la conversione, poi la salvezza, ma prima la salvezza e poi la conversione.

    Anche nel cristianesimo –lo abbiamo già ricordato – esistono i doveri e i comandamenti, ma il piano dei comandamenti, compreso il più grande di tutti che è amare Dio e il prossimo, non è il primo piano, ma il secondo; prima di esso, c’è il piano del dono, della grazia. “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). È dal dono che scaturisce il dovere, non viceversa

    Noi cristiani non entreremo certo in dialogo con altre fedi, affermando la differenza o la superiorità della nostra religione; questo sarebbe la negazione stessa del dialogo. Insisteremo piuttosto su ciò che ci unisce, gli obbiettivi comuni, riconoscendo agli altri lo stesso diritto (almeno soggettivo) di considerare la loro fede la più perfetta e la definitiva. Senza dimenticare, del resto, che chi vive con coerenza e in buona fede una religione delle opere e della legge è migliore e più gradito a Dio di chi appartiene alla religione della grazia, ma trascura completamente sia di credere nella grazia che di compiere le opere della fede.

    Tutto questo non deve però indurci a mettere tra parentesi la nostra fede nella novità e unicità di Cristo. Non si tratta neppure di affermare la superiorità di una religione sulle altre, ma di riconoscere la specificità di ognuna, di sapere chi siamo e cosa crediamo.

    Non è difficile spiegare il perché della difficoltà ad ammettere l’idea di grazia e del suo istintivo rifiuto da parte dell’uomo moderno. Salvarsi “per grazia” significa riconoscere la dipendenza da qualcuno e questo risulta la cosa più difficile. È nota l’affermazione di Marx: “Un essere non si presenta indipendente se non in quanto è signore di se stesso, e non è signore di se stesso se non in quanto deve a se stesso la sua esistenza. Un uomo che vive per la “grazia” di un altro si considera un essere dipendente [...]. Ma io vivrei completamente per la grazia di un altro, se egli avesse creato la mia vita, se egli fosse la sorgente della mia vita e questa non fosse mia propria creazione”[8].Il motivo per cui si rifiuta un Dio creatore è anche quello per cui si rifiuta un Dio salvatore.

    È la spiegazione che san Bernardo da del peccato di Satana: egli preferì essere la più infelice delle creature per merito proprio, anziché la più felice per grazia altrui; preferì essere “infelice ma sovrano, anziché felice ma dipendente: misere praeesse, quam feliciter subesse[9].

    Il rifiuto del cristianesimo, in atto a certi livelli della nostra cultura occidentale, quando non è rifiuto della Chiesa e dei cristiani, è rifiuto della grazia.

    5. “Noi predichiamo Cristo Gesù Signore”

    Qual è, in questo campo, il compito dei sacerdoti in quanto amministratori dei misteri di Dio e maestri della fede? Quello di aiutare i fratelli a vivere la novità della grazia, che è come dire la novità di Cristo.

    Gesù nel vangelo usa l’espressione “i misteri del Regno dei cieli” per indicare tutto il suo insegnamento e, in particolare, ciò che riguarda la sua persona (cf. Mt 13, 11). Dopo la Pasqua si passa sempre più spesso dal plurale al singolare, dai misteri al mistero: tutti i misteri di Dio si riassumono ormai nel mistero che è Cristo.

    San Paolo parla del “mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti” (Col 2, 2-3). Ci invita a pensare a Cristo come a un palazzo, addentrandosi nel quale si passa di meraviglia in meraviglia. L’universo materiale, con tutte le sue bellezze e la sua incalcolabile estensione, è l’unica immagine adeguata dell’universo spirituale che è Cristo. Non per nulla esso è stato fatto “per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16).

    L’Apostolo ha individuato con più chiarezza di tutti il centro e il cuore dell’annuncio cristiano e lo ho espresso in maniera programmatica, a modo di manifesto: “Noi predichiamo Cristo crocifisso” (1 Cor 1, 23) e “Noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore” (2 Cor 4,5). Tali parole giustificano in pieno l’affermazione secondo cui il cristianesimo non è una dottrina ma una persona.

    Ma cosa significa, nella pratica, predicare “Cristo crocifisso”, o “Cristo Gesù Signore?” Non significa parlare sempre e solo del Cristo del kerygma o del Cristo del dogma, cioè trasformare le prediche in lezioni di cristologia. Significa piuttosto “ricapitolare tutto in Cristo” (Ef 1,10), fondare ogni dovere su di lui, far servire ogni cosa allo scopo di portare gli uomini alla “sublime conoscenza di Cristo Gesù Signore” (Fil 3, 8).

    Gesù deve essere l’oggetto formale, non necessariamente e sempre l’oggetto materiale, della predicazione, quello che la “informa”, che fa da fondamento e da autorità a ogni altro annuncio, l’anima e la luce dell’annuncio cristiano. “Arido è ogni cibo dell’anima – esclama san Bernardo - se non è condito con questo olio; insipido se non è condito con questo sale. Ciò che scrivi non ha sapore - non sapit mihi – se non vi palpita dentro il cuore di Gesù – nisi sonuerit ibi Cor Jesu”[10].

    Nella Liturgia delle ore di lingua tedesca, il Stundengebet, c’è un inno (Lodi del Martedì della seconda settimana) che mi è divenuto caro fin dal primo momento che l’ho recitato. Comincia così: "Göttliches Wort, der Gottheit Schrein, für uns in dein Geheimnis ein”. “Verbo eterno, Dio vivo e vero, facci penetrare nel tuo mistero“. L’espressione “il mistero di Cristo” è la più comprensiva di tutte: racchiude il suo essere e il suo agire, la sua umanità e la sua divinità, la sua preesistenza e la sua incarnazione, le profezie dell’Antico Testamento e la loro realizzazione nella pienezza dei tempi. Possiamo ripeterlo come una giaculatoria: “Verbo eterno, Dio vivo e vero, facci penetrare nel tuo mistero".



    --------------

    1) PO, 2.

    2) Cf. J.-M. Tillard, “Sacerdoce”, in DSpir. 14, col.12.

    3) Agostino, De Spiritu et littera, 13,22.

    4) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 2.

    5) Ibid., q. 106, a. 1; cf. Agostino, De Spiritu et littera, 21, 36.

    6) Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 26, 4-5: CCL 36, 261; Confessioni, XIII, 9.

    7) Agostino, De Spir. et litt. ,19,34.

    8) C. Marx, Manoscritti del 1844, in Gesamtausgabe, III, Berlino 1932, p. 124 e Critica della filosofia del diritto di Hegel, in Gesamtausgabe, I, 1, Francoforte sul M. 1927, p. 614 s.

    9) Bernardo di Chiaravalle, De gradibus humilitatis, X, 36: PL 182, 962.

    10) Bernardo di Chiaravalle, Sermones super Canticum, XV, 6: Ed. Cistercense, Roma 1957, p.86.

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    fonte: http://www.zenit.org/article-21606?l=italian

  8. #38
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    Lettera del Cardinale Sepe ai GIOVANI per la Quaresima



    Non rinunciate alla bellezza dei vostri sogni


    Miei cari Giovani,
    il tempo della Quaresima ci vede impegnati nella preparazione all'evento che definiamo "il centro" della fede cristiana: la passione, morte e resurrezione di Gesù, nostro Signore e nostro Fratello.
    In tale significativa circostanza, desidero fare alcune riflessioni con voi ed esprimervi non solo la mia vicinanza e il mio affetto, ma suggerirvi anche degli itinerari per vivere meglio la Quaresima, nelle complesse situazioni che ogni giorno bussano alla porta della vostra vita.
    In questi anni, nelle visite alle comunità della Diocesi, ho sempre incontrato tanti di voi, giovani entusiasti e appassionati di Cristo e della nostra terra partenopea e meridionale, e ho cercato sempre di immedesimarmi nei vostri problemi, pregando ogni giorno per tutti voi e, soprattutto, per quanti di voi mi manifestano situazioni e disagi particolari.
    Mi fermo a pregare davanti al Crocifisso e, in quel Volto sofferente e icona del riscatto, rivedo i vostri sorrisi, la vostra gioia di vivere, i vostri sogni e le vostre aspirazioni, ma intravedo anche sguardi tristi, pensierosi e delusi di tanti.
    Spesso sono volti e occhi vuoti di speranza e senza orizzonti; occhi spenti che sembrano chiudersi alla vita e ai sogni, come se il tempo e la vita avessero tradito ogni aspettativa e non avessero più la forza di accenderli e di illuminarli; occhi colmi ora di lacrime, ora di sofferenza.
    Sono occhi di giovani mesti, che hanno smarrito o rischiano di smarrire il senso vero della vita e la loro stessa identità. Per loro la mia preghiera a Cristo si fa particolare e diventa più intensa, mentre invoco per tutti voi, cari giovani, la protezione e l'intercessione della Vergine Maria, la nostra Mamma celeste.
    In questa Santa Quaresima voglio parlare a tutti: a quelli che credono e a quanti non hanno il dono della fede, offrendo a tutti l'annuncio del Vangelo, che è la "Buona notizia" e ci parla di un uomo, Gesù di Nazareth, che ha sacrificato la sua vita per salvare quella di tutti gli altri uomini, facendosi inchiodare sulla Croce, come un comune mortale, come un perdente, uno sconfitto, che però risorge poi a vita nuova ed eterna, quella vita che Lui ha promesso a tutti noi.
    Una storia stupenda ed esaltante, un messaggio di amore in cui, alla luce del Vangelo, mi piace leggere la storia dell'umanità, la storia di ogni uomo che si affaccia alla meravigliosa avventura della vita.
    Sappiamo che ognuno di noi incontra il dolore, la sofferenza e la morte. Nessuno può sfuggire a questa esperienza, che segna la complessità della nostra vita e il confine della nostra esistenza.
    Ma non dobbiamo avvilirci, non dobbiamo arrenderci, dobbiamo sperare nel cambiamento, resistere e vincere, ad imitazione di Cristo, il Figlio di Dio, che si è fatto crocifiggere ed ha portato con sé sulla Croce tutti noi, l'umanità intera, mostrandosi umiliato e sconfitto ma celebrando poi e facendoci vivere la bellezza e la gioia della Pasqua, della resurrezione a vita nuova.
    Come poteva esprimere il suo amore per noi Dio, se non assumendo e vivendo in prima persona quello che è il limite della nostra vita, cioè la morte mediante crocifissione? Da allora, da quel momento nessuna croce sarà mai sola e definitiva:
    se e quando ci tocca salire sulla croce della vita, dobbiamo sapere che non verremo abbandonati a noi stessi e incontreremo Cristo, perché, nel momento del dolore e della paura, saremo con Lui, che ha vissuto la sofferenza della Croce, ma l'ha vinta ed è risorto.
    Un amore senza fine quello di Cristo, che ha scelto di stare con tutti i crocifissi della storia, quella storia che, nella sua diversità, si ripete e, come duemila anni fa, continua a vedere inchiodati sui vari golgota della terra, fuori dalle mura di Gerusalemme, tante vittime dell'ingiustizia, della prepotenza, della malattia e della povertà.
    La Quaresima ci insegna che non possiamo celebrare la Pasqua senza tenere ben presenti il significato, il valore e la forza del Calvario e della Croce, senza rivolgere il nostro cuore e le nostre braccia ai "crocifissi" di oggi, ai più deboli, agli emarginati, ai sofferenti, agli ultimi.
    Per questo vorrei proporvi un itinerario che possa creare spazi di riflessione, di preghiera e di impegno. Innanzitutto, dobbiamo saper :
    riconoscere i nuovi "crocifissi", i giovani immigrati che, con speranza e fiducia nell'umanità, attraversano i nostri mari e le nostre terre in cerca di futuro e spesso, invece, incontrano indifferenza, insensibilità e intolleranza, se non violenza e morte; i precari, i senza- lavoro; i giovani dai sogni infranti, soli e senza affetti; i giovani disoccupati.
    Di fronte a tanta miseria, in nome della carità cristiana dobbiamo dire la verità, anche denunciando coloro che, ancora oggi, per egoismo, per arrivismo, per ingordigia, per arroganza o per inefficienza inchiodano sulla croce gli innocenti, i più deboli, i giovani.
    E' nostro dovere cristiano, comunque, liberare della croce, schiodare gli indifesi dalle loro croci e rimuovere situazioni di sofferenza, per costruire l'alternativa alle croci della vita, quella propria e quella degli altri, con lo slancio, la passione, la generosità e la forza che solo voi giovani possedete e sapete donare.
    Mi piace richiamare qui, aprendomi pienamente a voi, l'immagine del Crocifisso che più mi è familiare e che certamente è tanto cara a molti di voi, cioè quella di San Damiano, che parlò a San Francesco d'Assisi.
    Sulla croce, gli occhi non sono chiusi perché Lui ha vinto la morte per sempre, ha dato la vita per ciascuno di noi e ci invita a donarci agli altri. Gli occhi aperti sono segno di una vittoria, di una mentalità nuova e di uno stile di vita autenticamente cristiano. Avere gli occhi aperti è dire a tutti la provvisorietà della croce e testimoniare che quella croce è fonte di speranza.
    Nello sguardo vivo, sereno e luminoso di Cristo si intravede la storia di ognuno di noi, il percorso di coloro che vogliono dare un senso alla vita, che non si fermano alle apparenze e alle ingiustizie, ma vedono e affrontano tutto con speranza certa.
    Quello sguardo è un invito pressante e forte a diventare ogni giorno dispensatori di speranza, a guardare al futuro senza paure nè angosce, stando pure sulla croce, ma ad occhi aperti!
    Cari giovani, vi auguro, con affetto e sincerità, una vita senza croci, ma soprattutto vi auguro di imparare a riconoscere i crocifissi di oggi, ad avere sempre la forza e l'entusiasmo di pensare e costruire alternative alle vostre croci e a quelle degli altri.
    Vi assicuro che mi sento fortemente legato a voi, come padre e come amico, e che vi tengo costantemente presenti nelle mie preghiere e nel mio impegno pastorale, mentre vi auguro di sopportare con coraggio il peso delle inevitabili croci della vita, vivendo la bellezza dei vostri sogni per realizzare i vostri progetti e le vostre aspirazioni, perché siete la speranza che è certezza, perché siete il futuro dell'umanità.
    Che questa Pasqua porti nei vostri cuori la certezza che non siete soli, che la sofferenza è umanamente possibile ma transitoria e che la forza dell'Amore e della Speranza vincerà così come Cristo ha vinto la morte!
    Su tutti voi e sulle vostre famiglie scenda la benedizione del Signore e 'A Maronna v'accumpagne! DA: RUBRICALITURGICA.IT



    Guardate quanto è bella e profonda la lettera per la quaresima inviata ai giovani dal mio Vescovo.............
    "Solo la carità salverà il mondo". San Luigi Orione.

  9. #39
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    SECONDA PREDICA DI PADRE CANTALAMESSA PER LA QUARESIMA 2010
    "Cristo offrì se stesso a Dio"


    CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 12 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la seconda predica di Quaresima che padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì mattina nella cappella Redemptoris Mater, alla presenza di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori della Curia romana.

    Il tema delle meditazioni di quest'anno è "Dispensatori dei misteri di Dio. Il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti", in continuità con la riflessione sul ministero episcopale e presbiterale iniziata in Avvento.

    La prima predica è stata pronunciata il 5 marzo, quella successiva avrà luogo il 26 marzo.

    * * *


    1. La novità del sacerdozio di Cristo

    In questa meditazione vogliamo riflettere sul sacerdote come amministratore dei misteri di Dio, intendendo, questa volta, per "misteri" i segni concreti della grazia, i sacramenti. Non possiamo soffermarci su tutti i sacramenti, ci limitiamo al sacramento per eccellenza che è l'Eucaristia. Così fa anche la Presbyterorum Ordinis che, dopo aver parlato dei presbiteri come evangelizzatori, prosegue dicendo che " il loro servizio, che comincia con l'annuncio del Vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal sacrificio di Cristo" che essi rinnovano misticamente sull'altare[1].

    Questi due compiti del sacerdote sono quelli che anche gli apostoli riservarono a se stessi: "Quanto a noi -dichiara Pietro negli Atti -, continueremo a dedicarci alla preghiera e al ministero della Parola" (At 6,4). La preghiera di cui egli parla non è la preghiera privata; è la preghiera liturgica comunitaria che ha al suo centro la frazione del pane. La Didaché permette di vedere come l'Eucaristia nei primi tempi veniva offerta proprio nel contesto della preghiera della comunità, come parte di essa e suo culmine[2].

    Come il sacrificio della Messa non si concepisce se non in dipendenza dal sacrificio della croce, così il sacerdozio cristiano non si spiega se non in dipendenza e come partecipazione sacramentale al sacerdozio di Cristo. È da qui che dobbiamo partire per scoprire la caratteristica fondamentale e i requisiti del sacerdozio ministeriale.

    La novità del sacrificio di Cristo rispetto al sacerdozio dell'antica alleanza (e, come oggi sappiamo, rispetto a ogni altra istituzione sacerdotale anche fuori della Bibbia) è messa in rilievo nella Lettera agli Ebrei da diversi punti di vista: Cristo non ha avuto bisogno di offrire vittime anzitutto per i propri peccati, come ogni sacerdote (7,27); non ha bisogno di ripetere più volte il sacrificio, ma "una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso" (9, 26). Ma la differenza fondamentale è un'altra. Sentiamo come essa viene descritta:

    "Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri [...] è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna. Infatti, se il sangue di capri, di tori e la cenere di una giovenca sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano, in modo da procurar la purezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì se stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!" (Eb 9, 11-14).

    Ogni altro sacerdote offre qualcosa fuori di sé, Cristo ha offerto se stesso; ogni altro sacerdote offre delle vittime, Cristo si è offerto vittima! Sant'Agostino ha racchiuso in una formula celebre questo nuovo genere di sacerdozio, in cui sacerdote e vittima sono la stessa cosa: "Ideo victor, quia victima, et ideo sacerdos, quia sacrificium": vincitore perché vittima, sacerdote perché vittima"[3].

    Nel passaggio dai sacrifici antichi al sacrificio di Cristo si osserva la stessa novità che nel passaggio dalla legge alla grazia, dal dovere al dono, illustrata in una meditazione precedente. Da opera dell'uomo per placare la divinità e riconciliarla a sé, il sacrificio passa ad essere dono di Dio per placare l'uomo, farlo desistere dalla sua violenza e riconciliarlo a sé (cf. Col 1,20). Anche nel suo sacrificio, come in tutto il resto, Cristo è "totalmente altro".

    2. "Imitate ciò che compite"

    La conseguenza di tutto ciò è chiara: per essere sacerdote "secondo l'ordine di Gesù Cristo", il presbitero deve, come lui, offrire se stesso. Sull'altare, egli non rappresenta soltanto il Gesù "sommo sacerdote", ma anche il Gesù "somma vittima", essendo ormai le due cose inseparabili. In altre parole non può accontentarsi di offrire Cristo al Padre nei segni sacramentali del pane e del vino, deve anche offrire se stesso con Cristo al Padre. Raccogliendo un pensiero di sant'Agostino, la istruzione della S. Congregazione dei riti, Eucharisticum mysterium, scrive: "La Chiesa, sposa e ministra di Cristo, adempiendo con lui all'ufficio di sacerdote e vittima, lo offre al Padre e, insieme, offre tutta se stessa con lui" [4].

    Quello che qui si dice della Chiesa intera, si applica in modo tutto speciale al celebrante. Al momento dell'ordinazione, il vescovo rivolge agli ordinandi l'esortazione: "Agnoscite quod agitis, imitamini quod tractatis": "Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai". In altre parole: fai anche tu ciò che fa Cristo nella Messa, cioè offri te stesso a Dio in sacrificio vivente. Scrive san Gregorio Nazianzeno:

    "Sapendo che nessuno è degno della grandezza di Dio, della Vittima e del Sacerdote, se non si è prima offerto lui stesso come sacrificio vivente e santo, se non si è presentato come oblazione ragionevole e gradita (cf Rom 12, 1) e se non ha offerto a Dio un sacrificio di lode e uno spirito contrito - l'unico sacrificio di cui l'autore di ogni dono domanda l'offerta -, come oserò offrirgli l'offerta esteriore sull'altare, quella che è la rappresentazione dei grandi misteri?"[5].

    Mi permetto di dire come io stesso ho scoperto questa dimensione del mio sacerdozio perché può forse aiutare a capire meglio. Dopo la mia ordinazione, ecco come io vivevo il momento della consacrazione: chiudevo gli occhi, chinavo il capo, cercavo di estraniarmi da tutto ciò che mi circondava per immedesimarmi in Gesù che, nel cenacolo, pronunciò per la prima volta quelle parole: "Accipite et manducate...", "Prendete, mangiate...".

    La liturgia stessa favoriva questo atteggiamento, facendo pronunciare le parole della consacrazione a voce bassa e in latino, chinati sulle specie, rivolti all'altare e non al popolo. Poi, un giorno, ho capito che tale atteggiamento, da solo, non esprimeva tutto il significato della mia partecipazione alla consacrazione. Chi presiede invisibilmente a ogni Messa è il Gesù risorto e vivo, il Gesù, per essere esatti, che era morto, ma ora vive per sempre (cf. Ap 1, 18). Ma questo Gesù è il "Cristo totale", Capo e corpo inscindibilmente uniti. Dunque, se è questo Cristo totale che pronuncia le parole della consacrazione, anch'io le pronuncio con lui. Dentro l'"Io" grande del Capo, c'è nascosto il piccolo "io" del corpo che è la Chiesa, c'è anche il mio piccolissimo "io".

    Da allora, mentre, come sacerdote ordinato dalla Chiesa, pronuncio le parole della consacrazione "in persona Christi", credendo che, grazie allo Spirito Santo, esse hanno il potere di cambiare il pane nel corpo di Cristo e il vino nel suo sangue, allo stesso tempo, come membro del corpo di Cristo, non chiudo più gli occhi, ma guardo i fratelli che ho davanti, o, se celebro da solo, penso a coloro che devo servire durante il giorno e, rivolto a essi, dico mentalmente, insieme con Gesù: "Fratelli e sorelle, prendete, mangiate: questo è il mio corpo; prendete, bevete, questo è il mio sangue".

    In seguito ho trovato una singolare conferma negli scritti della venerabile Concepciòn Cabrera de Armida, detta Conchita, la mistica messicana, fondatrice di tre ordini religiosi, di cui è in corso il processo di beatificazione. Al suo figlio gesuita, in procinto di essere ordinato sacerdote, ella scriveva: "Ricordati, figlio mio, quando terrai in mano l'Ostia Santa, tu non dirai: Ecco il corpo di Gesù, ecco il suo sangue, ma dirai: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue: cioè deve operarsi in te una trasformazione totale, devi perderti in lui, essere un altro Gesù"[6].

    L'offerta del sacerdote e di tutta la Chiesa, senza quella di Gesù, non sarebbe né santa, né gradita a Dio, perché siamo solo creature peccatrici, ma l'offerta di Gesù, senza quella del suo corpo che è la Chiesa, sarebbe anch'essa incompleta e insufficiente: non, s'intende, per procurare la salvezza, ma perché noi la riceviamo e ce ne appropriamo. È in questo senso che la Chiesa può dire con san Paolo: "Completo nella mia carne ciò che manca alla passione di Cristo" (cf. Col 1, 24).

    Possiamo illustrare con un esempio ciò che avviene ad ogni Messa. Immaginiamo che in una famiglia c'è uno dei figli, il primogenito, affezionatissimo al padre. Per il suo compleanno vuole fargli un regalo. Prima però di presentarglielo chiede, in segreto, a tutti i fratelli e le sorelle di apporre la loro firma sul dono. Questo arriva dunque nelle mani del padre come l'omaggio indistinto di tutti i suoi figli e come un segno della stima e dell'amore di tutti loro, ma, in realtà, uno solo ha pagato il prezzo di esso.

    E ora l'applicazione. Gesú ammira ed ama sconfinatamente il Padre celeste. A lui vuol fare ogni giorno, fino alla fine del mondo, il dono più prezioso che si possa pensare, quello della sua stessa vita. Nella Messa egli invita tutti i suoi "fratelli", che siamo noi, ad apporre la loro firma sul dono, di modo che esso giunge a Dio Padre come il dono indistinto di tutti i suoi figli, "il mio e vostro sacrificio", lo chiama il sacerdote nell'Orate fratres. Ma, in realtà, sappiamo che uno solo ha pagato il prezzo di tale dono. E quale prezzo!

    3. Il corpo e il sangue

    Per capire le conseguenze pratiche che derivano per il sacerdote da tutto questo, è necessario tener conto del significato della parola "corpo" e della parola "sangue". Nel linguaggio biblico, la parola corpo, come la parola carne, non indica, come per noi oggi, una terza parte della persona come nella tricotomia greca (corpo, anima, nous); indica tutta la persona, in quanto vive in una dimensione corporea.( "Il Verbo si fece carne", significa si fece uomo, non ossa, muscoli, nervi!). A sua volta, "sangue" non indica una parte di una parte dell'uomo. Il sangue è sede della vita, perciò l'effusione del sangue è segno della morte.

    Con la parola "corpo" Gesù ci ha donato la sua vita, con la parola sangue ci ha donato la sua morte. Applicato a noi, offrire il corpo significa offrire il tempo, le risorse fisiche, mentali, un sorriso che è tipico di uno spirito che vive in un corpo; offrire il sangue significa offrire la morte. Non soltanto il momento finale della vita, ma tutto ciò che già fin da ora anticipa la morte: le mortificazioni, le malattie, le passività, tutto il negativo della vita.

    Proviamo a immaginare la vita sacerdotale vissuta con questa consapevolezza. Tutta la giornata, non solo il momento della celebrazione, è una eucaristia: insegnare, governare, confessare, visitare i malati, anche il riposo, anche lo svago, tutto. Un maestro spirituale, il gesuita francese Pierre Olivaint, diceva: "Le matin, moi prêtre, Lui victime; le long du jour Lui prêtre, moi victime: il mattino (a quel tempo la Messa si celebrava solo di mattina) io sacerdote, Lui (Cristo) vittima ; lungo la giornata, Lui sacerdote, io vittima. "Come fa bene un prete -diceva il Santo curato d'Ars - a offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine"[7].

    Grazie all'Eucaristia, anche la vita del sacerdote anziano, malato, e ridotto all'immobilità, è preziosissima per la Chiesa. Lui offre "il sangue". Feci visita una volta a un sacerdote malato di tumore. Si stava preparando per celebrare una delle sue ultime Messe con l'aiuto di un sacerdote giovane. Aveva anche una malattia agli occhi per cui lacrimava in continuazione. Mi disse: "Non avevo mai capito l'importanza di dire anche a nome mio nella Messa: "Prendete, mangiate; prendete bevete...". Adesso l'ho capito. È tutto quello che mi resta e lo dico in continuazione pensando ai miei parrocchiani. Ho capito cosa vuol dire essere "pane spezzato" per gli altri.

    4. A servizio del sacerdozio universale dei fedeli

    Una volta scoperta questa dimensione esistenziale, dell'Eucaristia, è compito pastorale del sacerdote aiutare a viverla anche al resto del popolo di Dio. L'anno sacerdotale non dovrebbe rimanere una opportunità e una grazia solo per i preti, ma anche per i laici. La Presbyterorum ordinis afferma chiaramente che il sacerdozio ministeriale è a servizio del sacerdozio universale di tutti battezzati, affinché essi " possano offrire se stessi come ostia viva, santa, accettabile da Dio (Rom 12,1). Infatti:

    "È attraverso il ministero dei presbiteri che il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto nell'unione al sacrificio di Cristo, unico mediatore; questo sacrificio, infatti, per mano dei presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell'eucaristia in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore"[8].

    La costituzione Lumen gentium del Vaticano II, parlando del "sacerdozio comune" di tutti i fedeli, scrive:

    "I fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all'oblazione dell'Eucaristia...Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e culmine di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa; così tutti, sia con la oblazione che con la santa comunione, compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però ugualmente, ma chi in un modo e chi in un altro" [9] .

    L'Eucaristia è dunque l'atto di tutto il popolo di Dio, non solo nel senso passivo, che ridonda a beneficio di tutti, ma anche attivamente, nel senso che è compiuto con la partecipazione di tutti. Il fondamento biblico più chiaro di questa dottrina è Romani 12, 1: "Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente santo e gradito a Dio, è questo il vostro culto spirituale" .

    Commentando queste parole di Paolo, san Pietro Crisologo, diceva:

    "L'Apostolo vede così innalzati tutti gli uomini alla dignità sacerdotale per offrire i propri corpi come sacrificio vivente. O immensa dignità del sacerdozio cristiano! L'uomo è divenuto vittima e sacerdote per se stesso. Non cerca più fuori di sé ciò che deve immolare a Dio, ma porta con sé e in sé ciò che sacrifica a Dio per sé... Fratelli, questo sacrificio è modellato su quello di Cristo...Sii dunque, o uomo, sii sacrifico e sacerdote di Dio" [10].

    Proviamo a vedere come il modo di vivere la consacrazione che ho illustrato potrebbe aiutare anche i laici a unirsi all'offerta del sacerdote. Anche il laico è chiamato, abbiamo visto, a offrirsi a Cristo, nella Messa. Può farlo usando le stesse parole di Cristo: "Prendete, mangiate, questo è il mio corpo"? Penso che nulla si opponga a ciò. Non facciamo la stessa cosa quando, per esprimere il nostro abbandono alla volontà di Dio, usiamo le parole di Gesù sulla croce: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito", o quando, nelle nostre prove, ripetiamo: "Passi da me questo calice", o altre parole del Salvatore? Usare le parole di Gesù aiuta ad unirsi ai suoi sentimenti.

    La mistica messicana, ricordata sopra, sentiva rivolte anche a se, non solo al figlio sacerdote, le parole di Cristo: "Voglio che, trasformato in me per la sofferenza, per l'amore e per la pratica di tutte le virtù, salga verso il cielo questo grido della tua anima in unione con me: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue" [11].

    Il fedele laico deve solo essere consapevole che queste parole dette da lui, nella Messa o durante il giorno, non hanno il potere di rendere presente il corpo e il sangue di Cristo sull'altare. Egli non agisce, in questo momento, in persona Christi; non rappresenta Cristo, come fa il sacerdote ordinato, ma solo si unisce a Cristo. Perciò, non dirà le parole della consacrazione a voce alta, come il sacerdote, ma nel proprio cuore, pensandole, più che pronunziandole.

    Proviamo a immaginare cosa avverrebbe se anche i laici, al momento della consacrazione, dicessero silenziosamente: "Prendete, mangiate: questo è il mio corpo. Prendete, bevete: questo è il mio sangue". Una mamma di famiglia celebra così la sua Messa, poi va a casa e comincia la sua giornata fatta di mille piccole cose. La sua vita è letteralmente sbriciolata; apparentemente non lascia traccia alcuna nella storia. Ma non è cosa da niente quello che fa: è un'eucaristia insieme con Gesù! Una suora dice anche lei, nel suo cuore, al momento della consacrazione: "Prendete, mangiate..."; poi va al suo lavoro giornaliero: bambini, malati, anziani. L'Eucaristia "invade" la sua giornata che diventa come un prolungamento dell'Eucaristia.

    Ma vorrei soffermarmi in particolare su due categorie di persone: i lavoratori e i giovani. Il pane eucaristico "frutto della terra e del lavoro dell'uomo", ha qualcosa di importante da dire sul lavoro umano, e non solo su quello agricolo. Nel processo che porta dal chicco seminato in terra al pane sulla mensa, interviene l'industria con le sue macchine, il commercio, i trasporti e un'infinità di altre attività, in pratica tutto il lavoro umano. Insegniamo al lavoratore cristiano a offrire, nella Messa, il suo corpo e il suo sangue, cioè il tempo, il sudore, la fatica. Il lavoro non sarà più alienante come nella visione marxista in cui esso finisce nel prodotto che viene venduto, ma santificante.

    E cosa ha da dire l'Eucaristia ai giovani? Basta che pensiamo una cosa: cosa vuole il mondo dai giovani e dalle ragazze, oggi? Il corpo, nient'altro che il corpo! Il corpo, nella mentalità del mondo, è essenzialmente uno strumento di piacere e di sfruttamento. Qualcosa da vendere, da spremere finché è giovane e attraente, e poi da buttare via, insieme con la persona, quando non serve più a questi scopi. Specialmente il corpo della donna è divenuto una merce di consumo.

    Insegniamo ai giovani e alle ragazze cristiane a dire, al momento della consacrazione: "Prendete, mangiate, questo è il mio corpo, offerto per voi". Il corpo viene così consacrato, diventa cosa sacra, non si può più "dare in pasto" alla concupiscenza propria ed altrui, non si può più vendere, perché si è donato. E' diventato eucaristia con Cristo. L'apostolo Paolo scriveva ai primi cristiani: "Il corpo non è per l'impudicizia, ma per il Signore...Glorificate dunque Dio con il vostro corpo (1 Cor 6, 13.20). E spiegava subito i due modi in cui si può glorificare Dio con il proprio corpo: o con il matrimonio o con la verginità, a secondo del carisma e della vocazione di ognuno (cf. 1 Cor 7, 1 ss.).

    5. Con l'opera dello Spirito Santo

    Dove trovare la forza, sacerdoti e laici, per fare questa offerta totale di sé a Dio, per prendersi e sollevarsi, per così dire, da terra con le proprie mani? La risposta è: lo Spirito Santo! Cristo, abbiamo ascoltato all'inizio dalla Lettera agli Ebrei, offrì se stesso al Padre in sacrificio, "nello Spirito eterno" (Eb 9, 14), cioè grazie allo Spirito Santo. Fu lo Spirito Santo che come suscitava nel cuore umano di Cristo l'impulso alla preghiera (cf. Lc 10,21), così suscitò in lui l'impulso e anzi il desiderio di offrirsi al Padre in sacrificio per l'umanità.

    Papa Leone XIII, nella sua enciclica sullo Spirito Santo, dice che "Cristo ha compiuto ogni sua opera, e specialmente il suo sacrificio, con l'intervento dello Spirito Santo (praesente Spiritu)"[12] e nella Messa, prima della comunione, il sacerdote prega dicendo: "Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre e con l'opera dello Spirito Santo (cooperante Spiritu Sancto), morendo hai dato la vita al mondo...". Questo spiega perché nella Messa ci sono due "epiclesi", cioè due invocazioni dello Spirito Santo: una, prima della consacrazione, sul pane e sul vino, e una, dopo la consacrazione, sull'intero corpo mistico.

    Con le parole di una di queste epiclesi (Preghiera eucaristica III), chiediamo al Padre il dono del suo Spirito per essere a ogni Messa, come Gesù, sacerdoti e insieme sacrificio: "Egli (lo Spirito Santo) faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito, perché possiamo ottenere il regno promesso insieme con i tuoi eletti: con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con i tuoi santi apostoli, i gloriosi martiri e tutti i santi nostri intercessori presso di te".

    [1] PO, 2.

    [2] Didachè, 9-10.

    [3] Agostino, Confessioni, 10,43.

    [4] Eucharisticum mysterium, 3; cf. Agostino, De civitate Dei, X, 6 (CCL 47, 279).

    [5] Gregorio Nazianzeno, Oratio 2, 95 (PG 35, 497).

    [6] In Diario spirituale di una madre di famiglia, a cura di M.-M. Philipon, Roma, Città Nuova, 1985, p. 117.

    [7] Citato da Benedetto XVI nella Lettera di indizione dell'anno sacerdotale.

    [8] PO, 2.

    [9] Lumen gentium, 10-11.

    [10] Pietro Crisologo, Sermo 108 (PL 52, 499 s.).

    [11] Diario, cit., p. 199.

    [12] Leone XIII, Enc. "Divinum illud munus", 6.

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    fonte: http://www.zenit.org/article-21702?l=italian
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    TERZA PREDICA DI PADRE CANTALAMESSA PER LA QUARESIMA 2010
    "Se tornerai a me..."


    CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 26 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la terza e ultima predica di Quaresima che padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì mattina nella cappella Redemptoris Mater, alla presenza di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori della Curia romana.

    Il tema delle meditazioni di quest'anno è "Dispensatori dei misteri di Dio. Il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti", in continuità con la riflessione sul ministero episcopale e presbiterale iniziata in Avvento.

    La precedenti prediche sono state pronunciate il 5 e il 12 marzo.

    * * *

    1. La crisi del sacerdote

    Nella Scrittura troviamo la descrizione della crisi interiore di un sacerdote nella quale molti pastori di oggi, sono sicuro, si riconoscerebbero. È quella di Geremia che, prima di essere un profeta fu un sacerdote, "uno dei sacerdoti che risiedevano in Anatot" (Ger 1,1).

    "Ti ho servito come meglio potevo, mi sono rivolto a te con preghiere per il mio nemico...Io non mi sono seduto assieme a quelli che ridono, e non mi sono rallegrato....Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti" (Ger 15, 11-18). In un altro momento la crisi esplode in maniera ancor più aperta: "Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre...Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!" (Ger 20, 7-9).

    Qual è la risposta di Dio al profeta e sacerdote in crisi? Non un "Poverino, hai ragione, come sei infelice!". "Allora, il Signore mi rispose: "Se tornerai, io ti farò tornare e starai alla mia presenza; se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che vile, sarai la mia bocca" (Ger 15, 19). In altre parole: conversione!

    Parlando della novità del ministero della nuova alleanza abbiamo visto che essa consiste nella grazia, cioè nel fatto che il dono precede il dovere e che il dovere scaturisce proprio dal dono. Applichiamo ora questo principio fondamentale al ministero sacerdotale. Quello che abbiamo considerato finora costituiva la grazia sacerdotale, il dono ricevuto: ministri di Cristo, dispensatori dei misteri di Dio. Non possiamo concludere le nostre riflessioni senza mettere in luce anche il dovere e l'appello che scaturisce da esso, per così dire l'ex opere operantis del sacerdozio. Tale appello è lo stesso che Dio rivolse a Geremia: conversione!

    Credo di interpretare la preoccupazione più volte espressa in passato dal Santo Padre e che ha motivato, almeno in parte, la proclamazione di questo anno sacerdotale, dedicando quest'ultima meditazione alla necessità di una purificazione all'interno della Chiesa, a partire dal suo clero.

    L'appello alla conversione risuona nei momenti cruciali del Nuovo Testamento: all'inizio della predicazione di Gesù: "Convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15); all'inizio della predicazione apostolica, il giorno di Pentecoste: "Che dobbiamo fare, fratelli? E Pietro rispose: "Convertitevi e fatevi battezzare e riceverete lo Spirito Santo!" (At 2, 37). Ma non sono questi i contesti che riguardano più direttamente noi sacerdoti. Noi abbiamo creduto al vangelo, siamo stati battezzati e abbiamo ricevuto lo Spirito Santo. C'è un altro "convertitevi!" che ci riguarda da vicino, quello che risuona all'interno di ognuna delle sette lettere alle chiese dell'Apocalisse. Esso non è rivolto a non credenti o neofiti, ma a persone che vivono da tempo nella comunità cristiana.

    Un dato rende queste lettere particolarmente significative per noi: esse sono rivolte al pastore e al responsabile di ognuna delle sette chiese. "All'angelo della chiesa che è in Efeso scrivi": non si spiega il titolo angelo se non in riferimento, diretto o indiretto, al pastore della comunità. Non si può pensare che lo Spirito Santo attribuisca a degli angeli reali la responsabilità delle colpe e delle deviazioni che vi sono nelle diverse chiese e che l'invito alla conversione sia rivolto ad essi.

    2. "Sii fedele fino alla fine"

    Rileggiamo alcune di queste lettere, cercando di cogliere in esse gli elementi di una autentica conversione del clero, diaconi, sacerdoti e vescovi. Iniziamo dalla prima lettera, quella alla chiesa di Efeso. Notiamo anzitutto una cosa. Il Risorto non comincia il suo discorso dicendo ciò che non va nella comunità. Questa lettera, come quasi tutte le altre, inizia mettendo in rilievo il positivo, il bene che si fa nella chiesa: "Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza...Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti" (Ap 2, 2).

    Solo a questo punto interviene l'appello alla conversione: "Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, convertiti (metanoeson) e compi le opere di prima". L'appello alla conversione prende l'aspetto di un ritorno al primitivo fervore e amore per Cristo. Chi di noi sacerdoti non ricorda con commozione il momento in cui ci rendemmo conto di essere chiamati da Dio al suo servizio, il momento della professione per i religiosi, l'entusiasmo dei primi anni di ministero per i sacerdoti? È vero che lì c'era anche il fattore dell'età, la gioventù. Ma in questo caso non si tratta di natura: grazia era allora e grazia può essere oggi.

    "Ti ricordo, scriveva l'Apostolo al discepolo Timoteo, di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l'imposizione delle mie mani" (2 Tim 1,6) Il termine greco che viene tradotto con "ravvivare" suggerisce l'idea di soffiare sul fuoco perché torni ad ardere, riaccendere la fiamma. In una delle meditazioni di Avvento, abbiamo visto come l'unzione sacramentale, ricevuta nell'ordinazione, può tornare ad essere attiva e operante mediante la preghiera e un soprassalto di fede. Anche l'autore della lettera agli Ebrei ammoniva i primi cristiani a ricordare il loro iniziale entusiasmo: "Ricordatevi di quei primi giorni..." (Eb 10,32).

    Della lettera alla chiesa di Efeso riteniamo dunque il pressante invito a ritrovare l'amore e il fervore di un tempo. Un'altra componente della conversione sacerdotale lo troviamo nella lettera alla chiesa di Smirne. Anche qui, il Risorto mette anzitutto in luce il positivo: "Conosco la tua tribolazione, la tua povertà...", ma segue subito l'appello: "Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita".

    Fedeltà! Il Santo Padre ha messo questa parola come titolo e programma all'anno sacerdotale: "Fedeltà di Cristo e fedeltà del sacerdote". La parola fedeltà ha due significati fondamentali. Il primo è quello di costanza e di perseveranza; il secondo, è quello di lealtà, correttezza, l'opposto insomma di infedeltà, inganno e tradimento.

    Il primo significato è quello presente nelle parole del Risorto alla chiesa di Smirne, il secondo è quello inteso da Paolo nel testo che abbiamo scelto come guida delle nostre riflessioni: "Ognuno ci consideri servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quel che si richiede agli amministratori è che ciascuno sia trovato fedele" (1 Cor 4, 1-2). Questa parola richiama, forse volutamente, quella di Gesù nel vangelo di Luca: "Chi è l'amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito?" (Lc 12, 42). Il contrario di questa fedeltà è quello che fa, nella parabola, l'amministratore infedele (Lc 16, 1 ss.).

    A questa fedeltà si oppone il tradimento della fiducia di Cristo e della Chiesa, la doppia vita, il venir meno ai doveri del proprio stato, soprattutto per quanto riguarda il celibato e la castità. Sappiamo per dolorosa esperienza quanto danno può venire alla Chiesa e alle anime da questo tipo di infedeltà. È la prova forse più dura che la Chiesa sta attraversando in questo momento.

    3. "Alla chiesa di Laodicea scrivi..."

    La lettera che deve farci riflettere più di tutte è quella all'angelo della chiesa di Laodicea. Ne conosciamo il tono severo: "Conosco le tue opere: tu non sei ne freddo né caldo...Poiché sei tiepido, non sei cioè ne freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca...Sii zelante e convertiti" (Ap 3, 15 s).

    La tiepidezza di una parte del clero, la mancanza di zelo e l'inerzia apostolica: io credo che sia questo a indebolire la Chiesa più ancora degli scandali occasionali di alcuni sacerdoti che fanno più chiasso e contro i quali è più facile correre ai ripari. "La grande sventura per noi parroci -diceva il Santo Curato d'Ars - è che l'anima si intorpidisce"[1]. Lui non era certamente nel numero di questi parroci, ma questa sua frase fa pensare.

    Non si deve generalizzare (la Chiesa è ricca di sacerdoti santi che compiono silenziosamente il loro dovere), ma guai anche a tacere. Un laico impegnato mi diceva con tristezza: "La popolazione del nostro paese negli ultimi vent'anni è cresciuta di oltre tre milioni di abitanti, ma noi cattolici siamo fermi al numero di prima. Qualcosa non va nella nostra chiesa". E conoscendo quel clero, sapevo cosa non andava: la preoccupazione di molti di loro non erano le anime, ma i soldi e le comodità.

    Vi sono luoghi dove la Chiesa è viva ed evangelizza quasi solo per l'impegno e lo zelo di alcuni fedeli laici e aggregazioni laicali che per altro vengono a volte ostacolati e guardati con sospetto. Sono essi spesso che spingono i propri sacerdoti, pagando loro viaggio e soggiorno, a partecipare a un ritiro o a esercizi spirituali che diversamente non farebbero mai.

    A volte sono proprio coloro che meno fanno per il regno di Dio quelli che più ne reclamano i vantaggi. San Pietro e san Paolo, entrambi, hanno sentito il bisogno di mettere in guardia dalla tentazione di atteggiarsi a padroni della fede: "Non spadroneggiate sulle persone a voi affidate, ma fatevi modelli del gregge" (cf. 1 Pt 5,3), scrive il primo; "Noi non vogliamo farla da padroni sulla vostra fede, ma essere collaboratori della vostra gioia", scrive il secondo ( 2 Cor 1, 24).

    Ci si atteggia a padroni della fede, per esempio, quando si considerano tutti gli spazi e i locali della parrocchia come cose proprie da concedere a chi si vuole, anziché come beni di tutta la comunità, dei quali si è custodi, non proprietari.

    Trovandomi a predicare in un paese europeo che era stato in passato una fucina di sacerdoti e di missionari e che ora attraversava una crisi profonda, chiesi a un sacerdote del posto qual era secondo lui la causa di ciò. "In questo paese, mi rispose, i sacerdoti, dal pulpito e dal confessionale, decidevano tutto, perfino chi uno doveva sposare e quanti figli doveva avere. Quando si è diffuso nella società il senso e l'esigenza della libertà individuale, la gente si è ribellata e ha voltato del tutto le spalle alla Chiesa". Il clero si sentiva "padrone della fede", più che collaboratore della gioia della gente.

    Le parole rivolte dal Risorto alla chiesa di Laodicea: "Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo", fanno pensare a un'altra grande tentazione del clero quando viene meno la passione per le anime, è cioè la brama del denaro. Già san Paolo lamentava amaramente: "Omnia quae sua sunt quaerunt, non quae Jesu Christi": tutti cercano il proprio interesse, non quello di Cristo (Fil 2, 21) Tra le raccomandazioni più insistenti agli anziani, nelle Lettere pastorali, c'è quella di non essere attaccati al denaro ( 1Tim 3, 3). Nella Lettera di indizione dell'anno sacerdotale il Santo Padre presenta il Santo Curato d'Ars come modello di povertà sacerdotale. "Egli era ricco per dare agli altri ed era molto povero per se stesso". Il suo segreto era: "dare tutto e non conservare niente".

    Nel suo lungo discorso sui pastori[2], sant'Agostino proponeva a suo tempo, per un salutare esame di coscienza, l'apostrofe di Ezechiele contro i pastori negligenti. Non è male riascoltarla, almeno per sapere cosa è si deve evitare nel ministero sacerdotale:

    "Guai ai pastori d'Israele che non hanno fatto altro che pascere se stessi! Non è forse il gregge quello che i pastori debbono pascere? Voi mangiate il latte, vi vestite della lana, ammazzate ciò che è ingrassato, ma non pascete il gregge. Voi non avete rafforzato le pecore deboli, non avete guarito la malata, non avete fasciato quella che era ferita, non avete ricondotto la smarrita, non avete cercato la perduta, ma avete dominato su di loro con violenza e con asprezza" (Ez 34, 2-4).

    4. "Ecco, io sto alla porta e busso"

    Ma anche la severa Lettera alla chiesa di Laodicea, come tutte le altre, è una lettera d'amore. Essa termina con una delle immagini in assoluto più toccanti della Bibbia: "Io tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo...Ecco: io sto alla porta e busso".

    In noi sacerdoti Cristo non bussa per entrare, ma per uscire. Quando si tratta della prima conversione, dall'incredulità alla fede, o dal peccato alla grazia, Cristo è fuori e bussa alle pareti del cuore per entrare; quando si tratta di successive conversioni, da uno stato di grazia a uno più alto, dalla tiepidezza al fervore, avviene il contrario: Cristo è dentro e bussa alle pareti del cuore per uscire!

    Spiego in che senso. Nel battesimo abbiamo ricevuto lo Spirito di Cristo; esso rimane in noi come nel suo tempio (1 Cor 3,16), finché non ne viene scacciato dal peccato mortale. Ma può succedere che questo Spirito finisca per essere come imprigionato e murato dal cuore di pietra che gli si forma intorno. Non ha la possibilità di espandersi e permeare di sé le facoltà, le azioni e i sentimenti della persona. Quando leggiamo la frase di Cristo: "Ecco io sto alla porta e busso" (Ap 3, 20), dovremmo capire che egli non bussa dall'esterno, ma dall'interno; non vuole entrare, ma uscire.

    L'Apostolo dice che Cristo deve essere "formato" in noi (Gal 4, 19), cioè svilupparsi e ricevere la sua piena forma; è questo sviluppo che è impedito dalla tiepidezza e dal cuore di pietra. A volte si vedono ai lati delle strade grossi alberi (a Roma sono in genere pini) le cui radici, imprigionate dall'asfalto, lottano per espandersi, sollevando a tratti lo stesso cemento. Così dobbiamo immaginare che è il regno di Dio nel cuore dell'uomo: un seme destinato a diventare un albero maestoso su cui si posano gli uccelli del cielo, ma che fa fatica a svilupparsi se viene soffocato da preoccupazioni terrene.

    Vi sono ovviamente gradi diversi in questa situazione. Nella maggioranza delle anime impegnate in un cammino spirituale Cristo non è imprigionato dentro una corazza, ma per così dire in libertà vigilata. È libero di muoversi, ma dentro limiti ben precisi. Questo avviene quando tacitamente gli si fa capire cosa può chiederci e cosa non può chiederci. Preghiera sì, ma non da compromettere il sonno, il riposo, la sana informazione...; obbedienza sì, ma che non si abusi della nostra disponibilità; castità sì, ma non fino al punto da privarci di qualche spettacolo distensivo, anche se spinto... Insomma l'uso di mezze misure.

    Nella storia della santità l'esempio più famoso della prima conversione, quella dal peccato alla grazia, è sant'Agostino; l'esempio più istruttivo della seconda conversione, quella dalla tiepidezza al fervore, è santa Teresa d'Avila. Quello che ella dice di sé nella Vita è probabilmente esagerato e dettato dalla delicatezza della sua coscienza, ma può servire a tutti noi per un utile esame di coscienza. "Di passatempo in passatempo, di vanità in vanità, di occasione in occasione, cominciai a mettere di nuovo in pericolo la mia anima [...]. Le cose di Dio mi davano piacere e non sapevo svincolarmi da quelle del mondo. Volevo conciliare questi due nemici tra loro tanto contrari: la vita dello spirito con i gusti e i passatempi dei sensi".

    Il risultato di questo stato era una profonda infelicità: " Cadevo e mi rialzavo, e mi rialzavo così male che ritornavo a cadere. Ero così in basso in fatto di perfezione che non facevo quasi più conto dei peccati veniali, e non temevo i mortali come avrei dovuto, perché non ne fuggivo i pericoli. Posso dire che la mia vita era delle più penose che si possano immaginare, perché non godevo di Dio, né mi sentivo contenta del mondo. Quando ero nei passatempi mondani, il pensiero di quello che dovevo a Dio me li faceva trascorrere con pena; e quando ero con Dio, mi venivano a disturbare gli affetti del mondo"[3]. Molti sacerdoti potrebbero scoprire in questa analisi il motivo di fondo della propria insoddisfazione e scontentezza.

    Fu la contemplazione del Cristo della passione a dare a Teresa la spinta decisiva al cambiamento che fece di lei la santa e la mistica che conosciamo[4].

    5. "Voglio sperare!"

    Torniamo, per finire, alla risposta di Dio ai lamenti di Geremia. Dio fa al suo profeta convertito delle promesse che acquistano un significato particolare se lette come rivolte a noi sacerdoti della Chiesa cattolica nell'attuale momento di grave disagio che stiamo attraversando: "Se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile": cioè, se saprai distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario nella tua vita, se preferirai la mia approvazione a quella degli uomini; "tu sarai come la mia bocca". "Essi devono tornare a te, non tu a loro": sarà il mondo a cercare il tuo favore, non tu quello del mondo. "Io ti renderò come un muro durissimo di bronzo (questa parola è rivolta ora a lei, Santo Padre); combatteranno contro di te, ma non potranno prevalere, perché io sarò con te" (Ger 15, 19-20).

    Quello che occorre in questo momento è un sussulto di speranza; dovremmo tornare a leggere l'enciclica "Spe salvi sumus" del nostro Santo Padre. La Scrittura ci presenta diversi esempi di sussulti di speranza, ma uno mi pare particolarmente istruttivo e vicino alla situazione attuale: la Terza Lamentazione di Geremia. Comincia in tono sconsolato: "Io sono l'uomo che ha visto l'afflizione sotto la verga del suo furore. Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce...Io sono diventato lo scherno di tutto il mio popolo, la sua canzone di tutto il giorno. Io ho detto: ‘È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!" (Lam III, 1-18).

    Ma a questo punto è come se il profeta avesse un improvviso ripensamento; dice a se stesso: " È una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite; si rinnovano ogni mattina. Grande è la tua fedeltà! ‘Il Signore è la mia parte, perciò spererò in lui".

    E dal momento che prende la decisione "Voglio sperare!", il tono cambia e da cupa lamentazione diventa fiduciosa attesa di restaurazione: "Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore. Porga la guancia a chi lo percuote, si sazi pure di offese! Il Signore infatti non respinge per sempre; ma, se affligge, ha pure compassione, secondo la sua immensa bontà; poiché non è volentieri che egli umilia e affligge i figli dell'uomo" (Lam III, 22-33).

    Mi sono trovato a predicare un ritiro al clero di una diocesi americana scosso dalla reazione indiscriminata dell'opinione pubblica di fronte agli scandali di alcuni dei loro membri. Si era all'indomani del crollo delle Torri Gemelle e le macerie materiali sembravano il simbolo di altre macerie. Questo testo della Scrittura contribuì visibilmente a ridare fiducia e speranza a molti.

    Cristo soffre più di noi per l'umiliazione dei suoi sacerdoti e l'afflizione della sua Chiesa; se la permette, è perché conosce il bene che da essa può scaturire, in vista di una maggiore purezza della sua Chiesa. Se ci sarà umiltà, la Chiesa uscirà più splendente che mai da questa guerra! L'accanimento dei media - lo vediamo anche in altri casi - a lungo andare ottiene l'effetto contrario a quello da essi desiderato.

    L' invito di Cristo: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò", era rivolto, in primo luogo, a coloro che aveva intorno a sé e oggi ai suoi sacerdoti. "Venite a me e troverete ristoro": il frutto più bello di questo anno sacerdotale sarà un ritorno a Cristo, un rinnovamento della nostra amicizia con lui. Nel suo amore, il sacerdote troverà tutto quello di cui si è privato umanamente e "cento volte di più", secondo la sua promessa.

    Cambiamo dunque la iniziale protesta di Geremia in ringraziamento: "Grazie Signore, che un giorno ci hai sedotto, grazie che ci siamo lasciati sedurre, grazie che ci dai la possibilità di ritornare a te e ci riprendi dopo ogni tentativo di fuga. Grazie che affidi a noi "la custodia dei tuoi atri" (Zacc 3, 7) e fai di noi "la tua bocca". Grazie per il nostro sacerdozio!
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    [1] Cit. nella Lettera di indizione dell'anno sacerdotale di Benedetto XVI

    [2] Cf. Agostino, Sermo 46: CCL 41, pp.529 ss.

    [3] Teresa d'Avila, Vita, cc. 7-8.

    [4] Ib. 9, 1-3

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    fonte: http://www.zenit.org/article-21880?l=italian
    Oboedientia et Pax

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