Lo Staff del Forum dichiara la propria fedeltà al Magistero. Se, per qualche svista o disattenzione, dovessimo incorrere in qualche errore o inesattezza, accettiamo fin da ora, con filiale ubbidienza, quanto la Santa Chiesa giudica e insegna. Le affermazioni dei singoli forumisti non rappresentano in alcun modo la posizione del forum, e quindi dello Staff, che ospita tutti gli interventi non esplicitamente contrari al Regolamento di CR (dalla Magna Charta). O Maria concepita senza peccato prega per noi che ricorriamo a Te.
Pagina 2 di 59 PrimaPrima 12341252 ... UltimaUltima
Risultati da 11 a 20 di 589

Discussione: CEI: attività, documenti e interventi della Presidenza e dei vari organismi

  1. #11
    Gilbert
    visitatore

    Intervista di 30 Giorni a Sua Ecc.za Mons. Bagnasco

    ITALIA. Scelto il successore del cardinale Camillo Ruini alla presidenza della Cei
    «Quando il Papa chiama, si risponde...»
    L’arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco racconta ai lettori di 30Giorni la sua storia di sacerdote che nel giro di alcuni mesi si è trovato a essere pastore della Chiesa della sua città e presidente dell’intero episcopato italiano

    Intervista con Angelo Bagnasco di Gianni Cardinale

    L'arcivescovo Angelo Bagnasco Il 7 marzo Benedetto XVI ha nominato il nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana. Come successore del cardinale Camillo Ruini, che ha guidato la Cei per sedici anni, il Papa ha scelto l’arcivescovo Angelo Bagnasco, che da pochi mesi aveva sostituito il neosegretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone alla guida della diocesi di Genova.
    La nomina è venuta due settimane dopo che Bagnasco aveva diffuso la sua prima lettera pastorale per la Quaresima da arcivescovo di Genova, titolata Perseverare nella preghiera. «Senza la preghiera», scrive Bagnasco nella lettera, «ci agitiamo, ma con quale efficacia? È come se volessimo fare da soli, senza di Lui che fa crescere ciò che seminiamo».
    E non si può dire certo che monsignor Bagnasco si sia “agitato” per essere il successore – a Genova e alla Cei – di due grandi personalità della Chiesa italiana. Ma il Papa l’ha scelto, e, come lui ha ripetuto più volte, «quando il Papa chiama, si risponde…».
    30Giorni ha chiesto all’arcivescovo Bagnasco un colloquio per presentare ai lettori la sua storia di sacerdote genovese che nel giro di alcuni mesi si è trovato a essere pastore della Chiesa della sua città e presidente dell’intero episcopato italiano.

    Eccellenza, lei è un genovese doc, ma non è nato all’ombra della Lanterna…
    ANGELO BAGNASCO: Infatti sono venuto alla luce nel 1947 quando la mia famiglia era sfollata nel paese di mia madre, e quindi dei miei nonni, Robecco d’Oglio, in provincia di Cremona. Mamma Rosa mi ha partorito però a Pontevico, dove si trovava l’ospedale più vicino, che è a soli due chilometri di distanza, ma è già provincia e diocesi di Brescia. Sono stato battezzato lì, ma subito dopo sono stato portato a Genova insieme a mia sorella Anna che è di tre anni e mezzo più anziana di me.
    Quando ha avuto la vocazione al sacerdozio?
    BAGNASCO: Ho cominciato a fare il chierichetto nella mia parrocchia del centro storico di Genova, a piazza Sarzano, quando avevo sei anni. Il mio anziano parroco era l’abate Giovanni Battista Gazzolo, prima, e dopo monsignor Carlo Viacava mentre suo vice era il giovane curato don Gianni Zamiti – questi ultimi sono ancora vivi e sono felicissimi che il loro piccolo chierichetto sia diventato il loro arcivescovo! –, il quale ci seguiva il pomeriggio nel circolo parrocchiale dove andavamo a giocare. E il desiderio di farmi sacerdote è nato proprio quando facevo le elementari. Ma non l’ho confidato a nessuno. Dopo ho fatto le medie inferiori in una scuola mista, avendo sempre nel mio cuore quel desiderio...
    L’arcivescovo Angelo Bagnasco con Benedetto XVI ... che ha continuato a non confidare a nessuno. Fino a quando?
    BAGNASCO: Finita la terza media è arrivato il momento di fare la scelta per le superiori. I miei avevano l’idea che facessi gli studi per diventare ragioniere, anche perché il preside delle medie aveva garantito un aiuto nell’acquisto dei libri, visto che la mia famiglia non era certamente agiata. Mio papà Alfredo era operaio pasticciere e ha lavorato in fabbrica fino a 78 anni, mia madre era casalinga. I miei erano contentissimi della prospettiva di avere un figlio ragioniere, ma dopo le vacanze estive presi coraggio e dissi alla mamma del mio desiderio, che era diventato ormai una decisione, di entrare in seminario.
    Quale fu la reazione?
    BAGNASCO: Grande sorpresa e qualche perplessità. Avevano anche il timore che non potessi sopportare la vita in seminario che all’epoca appariva molto dura. Ma poi con l’aiuto del mio parroco e del vice si sono acquietati e così entrai nel seminario minore di Genova al Chiappeto. Fatti gli esami ginnasiali entrai nel vecchio seminario maggiore a via Porta d’Archi, nel cuore di Genova, dove ho fatto i tre anni del liceo classico. Anni molto duri, ma anche molto belli. Pieni di allegria, entusiasmo, fiducia. Superato positivamente l’esame finale in cui dovevo portare il programma di tutte le materie di tutti e tre gli anni, cominciai a frequentare i corsi di Teologia. Poi l’ordinazione sacerdotale, il 29 giugno 1966, per le mani del cardinale Giuseppe Siri.
    Che ricordo ha dei suoi professori dell’epoca?
    BAGNASCO: Al liceo c’erano dei docenti particolarmente severi, ma che la nostra goliardia riusciva a mitigare, come quello di scienze naturali, monsignor Rebora, o quello di latino, monsignor Gazzo. Negli anni di Teologia abbiamo avuto poi degli insegnanti molto competenti che hanno lasciato un’impronta, come il professore di Dogmatica – monsignor Giulio Adamini, grande maestro tuttora vivente – e quello di Sacra Scrittura – monsignor Alessandro Piazza, successivamente per venticinque anni vescovo di Albenga-Imperia –, e poi monsignor Pesce, uno dei segretari di Siri, che ci insegnava Storia dell’arte. Ma sono solo alcuni nomi tra i molti che potrei ricordare.
    E il rettore chi era?
    BAGNASCO: Era monsignor Luigi Roba, che con la sua semplicità e la sua profondità sacerdotale ha segnato in modo particolare la nostra formazione. Un uomo molto obbediente alla Chiesa, di una grandissima fede, che veramente è stato di buon esempio.
    Che ricordo ha del cardinale Siri?
    BAGNASCO: Il cardinale Siri ha accompagnato la mia, la nostra formazione, perché costantemente, tutte le settimane, veniva in seminario per fare il cosiddetto “circolo”. Lui veniva, si riuniva con i seminaristi e rispondeva alle loro domande. Non c’era un argomento preparato. Questo accadeva tutte le settimane, di mercoledì. Il cardinale era poi anche presente a tutte le grandi feste del seminario. E quanto questa sua presenza regolare abbia inciso positivamente nella nostra formazione, me ne accorgo io ma anche tutti i miei compagni di seminario.
    L’arcivescovo Bagnasco con il cardinale Tarcisio Bertone a Genova Ordinato sacerdote ha avuto incarichi pastorali, ma anche altro…
    BAGNASCO: Ho fatto sempre l’uno, l’altro e l’altro ancora… Il cardinale mi mandò come viceparroco a San Pietro e Santa Teresa del Bambino Gesù, una parrocchia di città, e nel contempo a studiare Filosofia all’Università di Stato di Genova. Laureatomi, ho cominciato a insegnare. Nella Facoltà teologica per venticinque anni, nel liceo del seminario per sette. Continuando sempre il lavoro in parrocchia, ovviamente.
    Cosa ha insegnato?
    BAGNASCO: Ai seminaristi l’italiano. Alla Facoltà teologica ho insegnato Metafisica e Ateismo contemporaneo dal 1980 al 1998. Questo lungo periodo di docenza mi ha molto aiutato ad affrontare anche le tematiche culturali di più scottante attualità. Senza contare il fatto positivo e stimolante di essere sempre a contatto con i giovani.
    Inoltre ha avuto a che fare con la Fuci e gli Scout.
    BAGNASCO: In effetti, sempre contemporaneamente agli altri incarichi, sono stato per quindici anni assistente della Fuci: dal 1980, su nomina del cardinale Siri. E per venticinque anni ho seguito gli Scout della mia parrocchia. Una grandissima esperienza, perché quello scout è un metodo educativo – per grandi e piccoli – molto bello, molto incisivo.
    Che si sente di consigliare ancora oggi?
    BAGNASCO: Decisamente, con un’attenzione alla formazione cristiana, che bisogna sempre avere. Però globalmente è un metodo che consiglio ai ragazzi di oggi.
    Con la Fuci ha continuato ad avere contatti anche in seguito?
    BAGNASCO: No, perché sono diventato vescovo. Ma adesso che sono tornato a Genova ho avuto modo di incontrare i molti universitari di allora che oggi hanno quasi tutti famiglia e bambini.
    Nel 1985 il cardinale Siri la nomina anche direttore dell’Ufficio catechistico diocesano. Con l’arrivo del nuovo arcivescovo Giovanni Canestri, nel 1987, cambiò qualcosa nella sua missione?
    BAGNASCO: Nell’85 Siri mi diede anche il compito di fondare ab imis – in collaborazione con la Santa Sede – l’Istituto superiore di scienze religiose, struttura nata in conseguenza della revisione del Concordato dell’84 per formare adeguatamente i professori di religione nelle scuole. Canestri mi confermò in tutti gli incarichi conferitimi da Siri e in più aggiunse, dal 1990, quello di responsabile dell’Ufficio di formazione permanente degli insegnanti di religione cattolica e, negli ultimi tre anni della sua permanenza a Genova, anche quello di direttore dell’Apostolato liturgico. Una gloria, quest’ultimo, della Chiesa di Genova, una Chiesa che ha visto germogliare grandi personalità – come monsignor Moglia, monsignor Cavalleri, il cardinale Giacomo Lercaro, lo stesso cardinale Siri – che avevano in qualche modo avvertito l’esigenza di un rinnovamento liturgico già prima del Concilio Vaticano II.
    Seppure con sensibilità diverse.
    BAGNASCO: È vero, ma tutti avevano in mente che fosse necessaria una sempre maggiore consapevolezza e una migliore partecipazione del popolo di Dio alla sacra liturgia.
    Nel 1995 alla guida dell’arcidiocesi di Genova arriva l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi.
    BAGNASCO: Poco dopo il suo arrivo mi nominò vicario episcopale e padre spirituale del seminario, rendendomi libero dagli altri incarichi. Quindi venni via dalla parrocchia, lasciai gli uffici di curia e la Fuci e andai ad abitare stabilmente in seminario, mantenendo gli insegnamenti che avevo. Fino al 1998.
    Monsignor Bagnasco, ordinario militare, amministra la cresima a un militare a Nassiriya durante la messa di Natale del 2005 Il 3 gennaio di quell’anno infatti lei viene nominato vescovo di Pesaro, che nel marzo 2000 diventa arcidiocesi. In questo periodo le cronache ricordano alcuni suoi interventi un po’ controcorrente. Come quando nel novembre 2001 criticò apertamente il fatto che un padre non possa aver voce sulla decisione della madre di abortire…
    BAGNASCO: Sì, c’è stato qualche intervento che ha avuto particolare enfasi sui mass media, ma d’altra parte le contingenze lo richiedevano. Sulla questione dell’aborto la Chiesa, i cattolici e non solo loro, non possono assolutamente tacere. La vita concepita ha tutti i diritti della vita umana e quindi non ci si può assolutamente assuefare all’idea che possa essere annullata. È il Concilio Vaticano II, al numero 51 della Gaudium et spes, a ricordarci che «abortus necnon infanticidium nefanda sunt crimina».
    Nel novembre 2002 poi lei ha pronunciato parole molto dure contro la moda di Halloween…
    BAGNASCO: Erano un po’ i primi tempi che cominciava a sorgere questa moda in concomitanza con la festa di Ognissanti e la commemorazione dei defunti. Era ed è una moda chiaramente nordica, pagana, fiabesca, che non fa parte della nostra cultura e di cui non si avverte proprio il bisogno. È vero che non dobbiamo e non vogliamo essere chiusi a nuovi apporti, ma devono essere apporti che devono arricchire la nostra società, non impoverirla. Nel caso di Halloween mi sembra che non sia un’apertura, ma una resa di fronte a mode più commerciali che propriamente culturali. Per questo è opportuno dire una parola di avvertimento, senza per questo voler fare crociate. Il problema della nostra identità culturale, che per noi ha chiaramente radici religiose e cristiane, è certamente una questione molto importante oggi. E lo vediamo sempre di più.
    Nel frattempo, dal 2001, lei è anche presidente del Consiglio di amministrazione del quotidiano Avvenire.
    BAGNASCO: Sì, sono stato nominato su indicazione della presidenza della Cei. È stata ed è tuttora un’esperienza indubbiamente bella, interessante e arricchente, perché mi ha immesso in un modo più diretto nel mondo della carta stampata, della buona stampa. E poi il Consiglio di amministrazione è composto da persone di altissimo livello.
    Il 20 giugno 2003 arriva la nomina a ordinario militare.
    BAGNASCO: Fu una nomina improvvisa. Tutto si svolse nel giro di pochi giorni. E fu una nomina per me totalmente inattesa, che accolsi con sorpresa e qualche timore. Innanzitutto perché il mondo militare era una realtà a me totalmente sconosciuta e poi perché si trattava di una diocesi estesa, che copre tutto il territorio nazionale e anche oltre, con i nostri soldati in missione all’estero. Senza contare poi che l’ordinariato ha oltre duecento preti sparsi anch’essi per l’Italia e per il mondo.
    Ebbe anche delle perplessità o riserve di natura pacifista?
    BAGNASCO: Assolutamente no. Anche perché non sono guerrafondaio e credo che in Italia nessuno lo sia. E poi perché i militari sono i primi che non vogliono la guerra.
    La sua nomina è avvenuta poco prima della strage di soldati italiani nel sud dell’Iraq.
    BAGNASCO: Ho cominciato a giugno, e a novembre c’è stata la tragedia di Nassiriya che mi ha messo di fronte in modo diretto, crudo e drammatico alla realtà del terrorismo, che ha colpito e continua a colpire in modo proditorio e vile tutti, senza distinzioni, come abbiamo visto in questi ultimi anni.
    L’arcivescovo Bagnasco davanti alla Cattedrale di San Lorenzo a Genova Quelli di Nassiriya non sono stati gli unici lutti che si è trovato ad affrontare.
    BAGNASCO: È vero, purtroppo anche dopo Nassiriya ho dovuto celebrare non pochi funerali. E devo dire che pur nella sofferenza, nel dolore dei parenti, dei colleghi e degli amici, ho scoperto una realtà, quella del mondo delle forze armate, di grande umanità e bontà, di grande generosità e spirito di sacrificio nel fare il proprio dovere con umiltà e discrezione. È un mondo di grande senso religioso e di grande fede. Devo proprio dirlo: i nostri militari italiani, che per il 97 per cento sono ragazzi del Centro-Sud, hanno un grande senso della famiglia e un grande senso religioso. A volte forse non pienamente praticato e vissuto, ma questo fa parte della natura umana.
    Per fortuna, quindi, non ha dovuto celebrare solo funerali.
    BAGNASCO: Grazie a Dio no. Diceva il cardinale Tettamanzi che nessuno celebrava tante cresime quanto me, neppure lui, che pure guida la più grande arcidiocesi d’Europa. E le ho celebrate in Italia ma anche all’estero: a Nassiriya, a Kabul, a Sarajevo, in Kosovo, in Albania. E questa è stata una grande grazia. Perché questi giovani a contatto col loro cappellano militare e in un contesto comunitario che è la caserma, la base o la nave, sentono rigermogliare la fede e chiedono di ricevere il sacramento della confermazione. Queste celebrazioni diventano un momento molto importante per loro stessi e per tutta la comunità militare. Diventano una grande occasione di evangelizzazione. In tre anni ho celebrato anche quarantacinque battesimi di ragazzi adulti fra i venti e trent’anni!
    Il 29 agosto 2005 arriva la nomina ad arcivescovo di Genova. In questo caso forse non si è trattato di una nomina inaspettata come quella a ordinario militare.
    BAGNASCO: I giornali scrivono tante cose e non è detto che siano sempre vere. Comunque io ho ricevuto la lettera della nunziatura apostolica in Italia il 22 agosto, sette giorni prima dell’annuncio ufficiale. E, al di là delle voci, giornalistiche e non, che si rincorrevano sulla mia persona, il ritornare nella mia Genova da arcivescovo è stato per me un fatto totalmente inatteso.
    Con lei Genova torna ad avere un arcivescovo genovese per la prima volta dopo il ritiro del cardinale Siri.
    BAGNASCO: In effetti è così.
    Anche per questo l’accoglienza è stata generalmente positiva. Sebbene non siano mancati dei problemi. Il 24 settembre, infatti, ha preso possesso della diocesi. E poche settimane dopo, verso la metà di ottobre, ha dovuto affrontare la questione della moschea...
    BAGNASCO: L’ipotesi di costruire una moschea nel cuore del quartiere popolare di Cornigliano era nata col mio predecessore, ma non se ne era fatto nulla. Poi i frati cappuccini del “Sorriso francescano” hanno proposto alla comunità musulmana una permuta con un terreno più decentrato. Sembrava una soluzione accettabile da tutti, ma successivamente è subentrata la notizia che dietro la comunità musulmana che voleva costruire la moschea c’era l’Ucoii [Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia, ndr], notoriamente accusata di avere tendenze fondamentaliste e dure. Allora non se ne è fatto più nulla.
    A fine ottobre poi, in occasione del Festival della scienza, i mass media hanno scritto di un suo rifiuto di parteciparvi a causa di un’impostazione troppo laicista e scientista dell’iniziativa.
    BAGNASCO: Non sono andato perché la mia agenda non me lo permetteva. E questa mia assenza è stata interpretata come un rifiuto ideologico, polemico. Certamente ho auspicato che il Festival della scienza, che è un evento culturale molto interessante, possa avere un’impostazione più aperta, comprensiva anche di un apporto dialogico con il pensiero religioso, cristiano, cattolico. Successivamente ho incontrato gli organizzatori e debbo dire che convenivano con queste mie osservazioni.
    Poi, a sorpresa, a metà gennaio di quest’anno c’è stato l’ingresso di un esponente della Curia nel Consiglio di amministrazione della importante Cassa di risparmio di Genova. Un fatto piuttosto inusuale...
    BAGNASCO: La Fondazione della Carige doveva rinnovare il C.d.a. e tutte le componenti del Consiglio di indirizzo – che è nominato da vari enti locali di Genova e del Ponente ligure – mi hanno chiesto di entrare nel C.d.a. come persona super partes e come segno di gratitudine verso la Chiesa genovese. Ho ben ponderato la proposta e, visto che la richiesta proveniva da tutte le parti politiche e sociali, ho accettato. Ovviamente comunque non potevo essere io a entrare, e allora ho designato al mio posto monsignor Giorgio Noli, vicario episcopale per il servizio e la testimonianza nella carità.
    Bagnasco tra gli operai dell’Ilva a Genova Ammetterà che si è trattato di un fatto anomalo?
    BAGNASCO: Non troppo. La Fondazione è un organismo che attraverso delle provvidenze cospicue promuove opere di bene in campo culturale, sociale, assistenziale. E in questo campo la Chiesa ha sempre avuto e ha un ruolo di primo piano.
    Dal 29 gennaio al 3 febbraio lei è stato a Roma per la visita ad limina della Conferenza episcopale ligure. Ha avvertito che si stava preparando per lei la nomina a presidente della Cei?
    BAGNASCO: Assolutamente no. Le voci giornalistiche, ma non solo, parlavano di altre soluzioni.
    Eppure già il 19 febbraio in ambienti giornalistici si dava come decisa la sua nomina. E il Secolo XIX del 21 febbraio riferiva come lei il 13 febbraio avesse disdetto tutti gli incontri e le visite previste per i due giorni successivi per intraprendere un viaggio imprevisto a Roma...
    BAGNASCO: Evidentemente in quei due giorni è successo qualcosa. E, come ho già detto, quando il Papa chiama, si risponde...
    Il 7 marzo la Sala stampa vaticana ha dato finalmente notizia della nomina a presidente della Cei per il prossimo quinquennio.
    BAGNASCO: E così finalmente si è sciolta anche la pressione massmediatica.
    Non troppo, però. La sua nomina è arrivata in un momento delicato del dibattito politico-culturale del nostro Paese: il disegno di legge sui cosiddetti Dico, l’ipotesi di una Nota “impegnativa” per i politici cattolici, il “Family Day”...
    BAGNASCO: Come ho già detto più volte, non si sentiva la necessità di una legge come quella sui Dico: i problemi cui vorrebbe rispondere si possono risolvere benissimo nell’ambito del diritto privato. Presentarla poi come una modalità cristiana di legiferare suona un po’ ridicolo. Riguardo alla annunciata Nota “impegnativa”, se ne discuterà nel prossimo Consiglio permanente della Cei [l’intervista è stata realizzata prima del Consiglio episcopale permanente del 26-29 marzo 2007, ndr]. Per quanto concerne il cosiddetto “Family Day”, se i laici cattolici unitariamente e concordemente decidono di promuoverlo e organizzarlo, e hanno la cura di farlo in maniera rispettosa e propositiva, non saranno certo i vescovi a fermarli. Hanno tutto il nostro consenso e sostegno.

  2. #12
    Veterano di CR
    Data Registrazione
    Feb 2007
    Località
    a casa
    Messaggi
    1,423
    Da www.chiesacattolica.it
    Omelia di S.E. Mons. Giuseppe Betori, Segretario Generale della CEI, in occasione della Festa di Sant’Ubaldo – Patrono di Gubbio (PG) - 16 maggio 2007

    Nella prima lettura di questa liturgia il libro del Siracide ci ha offerto il ritratto del Sommo Sacerdote Simone, un ritratto che ben si attaglia anche alla figura di Sant’Ubaldo, così come ce l’ha consegnata la storia e la devozione dei suoi concittadini. Ne emerge in particolare la funzione liturgica, fondamentale nel ministero di un vescovo – e di cui nella vita di Sant’Ubaldo si ha testimonianza vivissima proprio alla vigilia della sua morte, a ciò invocato dal suo popolo che ne reclama l’azione sacerdotale –, ma non vanno trascurati gli altri segni che completano l’immagine, in particolare in rapporto al servizio del popolo.
    Perché proprio questo fa grande Sant’Ubaldo e quindi da sempre e da tutti in Gubbio venerato e amato: il suo essere servitore della comunità ecclesiale e civile. Gli episodi che ne arricchiscono la biografia vanno tutti in questa direzione: la riforma della vita del clero, l’accettazione delle sofferenze che gli procura il suo comportamento mite e pronto al perdono, la povertà e l’uso benefico dei beni materiali a vantaggio dei poveri, il mettere a repentaglio la propria vita per riportare la pace, il ripudio di ogni timore davanti ai potenti per difendere la causa dei deboli, la serena accettazione delle sofferenze che colpiscono il suo corpo con il progredire degli anni, le numerose guarigioni di malati e afflitti durante la sua vita e dopo la sua morte.
    Ma c’è una frase nel brano del Siracide che risplende di particolare vigore, illuminando il momento centrale del rapporto tra Sant’Ubaldo e la sua città: “Premuroso di impedire la caduta del suo popolo fortificò la città contro un assedio”. Non possiamo non scorgervi una esaltante corrispondenza con il segno di croce tracciato da Sant’Ubaldo che pose fine all’assedio delle città nemiche. Ma non possiamo dimenticare che esso giunse solo alla fine di un itinerario di conversione del popolo e dopo la supplica che il Santo rivolse al Signore.
    C’è una forte carica di esemplarità in questo episodio chiave della vita di Sant’Ubaldo, che molto più insegnare anche per la condizione odierna della nostra società. Nuovi nemici tentano di espugnare le nostre città, di sovvertire il loro sereno ordinamento e di creare turbamento alla loro vita. Questi nuovi nemici si chiamano il nichilismo e il relativismo, che in modo più o meno esplicito nutrono le tendenze egemoni nella nostra cultura: fanno dell’embrione, l’essere umano più indifeso, un materiale disponibile per sperimentazioni mediche; danno copertura legale al crimine dell’aborto e si apprestano a farlo per le pratiche eutanasiche, infrangendo la sacralità dell’inizio e della fine della vita umana; introducono il concetto apparentemente innocuo di qualità della vita, che innesca l’emarginazione e la condanna dei più deboli e svantaggiati; coltivano sentimenti di arroganza e di violenza che fomentano le guerre e il terrorismo; delimitano gli spazi del riconoscimento dell’altro chiudendo all’accoglienza di chi è diverso per etnia, cultura e religione; negano possibilità di crescita per tutti mantenendo situazioni e strutture di ingiustizia sociale; oscurano la verità della dualità sessuale in nome di una improponibile libertà di autodeterminazione di sé; scardinano la natura stessa della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna.
    Occorre avere consapevolezza di questa battaglia in corso attorno alla persona umana e alla sua dignità e di quanto essa sia decisiva per il futuro della società, ma occorre anche riconoscere che può salvarci solo il riferimento al Dio creatore e alla sua legge scritta nei nostri cuori, e a noi rivelata in pienezza da Gesù che ci offre anche la grazia di adempierla. È questo riferimento trascendente che, giustamente, don Angelo Fanucci – nel suo commento alla vita di Sant’Ubaldo scritta da Giordano – vede in quel collocarsi “in alto” da parte di Sant’Ubaldo nel prendere posizione a favore dei suoi concittadini nel dramma dell’assedio. Così come la grandezza del Sommo Sacerdote Simone è tutta nel suo essere pontefice, ponte tra Dio e il suo popolo, altrettanto Sant’Ubaldo si colloca al di sopra di una visione puramente umana delle cose e si pone nella prospettiva di Dio, altrettanto anche noi oggi siamo chiamati a discernere e giudicare il presente con gli occhi di Dio e a chiedere a tutti, credenti e non credenti, di fare altrettanto se vogliamo salvare il nostro futuro, a vivere tutti – come ci ha invitato Benedetto XVI – “etsi Deus daretur”, “come se Dio esistesse”, ribaltando l’ipotesi che ha retto il pensiero e l’agire della modernità, l’“etsi Deus non daretur”, il “come se dio non ci fosse” che ha prodotto i forni di Auschwitz e i gulag della Siberia. Se vogliamo difendere il vero volto dell’uomo abbiamo bisogno di riscoprire il volto di Dio.
    E il volto di Dio è l’amore, come ci ha ricordato il Santo Padre nella sua enciclica Deus caritas est. Non però l’amore debole che nasconde la verità, che crea ambiguità sotto il velo della falsa tolleranza, bensì quello esigente che non rinuncia a ferire per curare, a distinguere per poter allacciare ponti veri e non a voler rendere tutto fittiziamente omologo, a richiamare alla responsabilità senza indulgere in un buonismo alla fine perdente. Solo da questa carità nella verità può scaturire quella capacità di costruzione della comunione che segna tante vicende della vita di Sant’Ubaldo e che la seconda lettura, tratta dalla lettera di San Paolo agli Efesini, descrive nei termini della benevolenza, della misericordia, del perdono, della carità a imitazione di Cristo che “ha dato se stesso per noi”.
    Questa visione alta della carità, che non rinuncia alla verità, ma proprio per questo è capace di generare progetti di novità di vita nella sfera individuale e in quella sociale, è ciò che è chiesto oggi ai cattolici. Da un siffatto progetto di rinnovamento spirituale, culturale e sociale può scaturire quel dominio sui dèmoni del nostro tempo, la cui sottomissione, secondo le parole della pagina del vangelo di Luca, è legata al nome di Gesù e al nostro affidarci come discepoli a lui. L’attesa della protezione del Santo è viva per noi, come lo fu in occasione della sua morte da parte dei tanti poveri che si rivolsero alla sua intercessione. Ma, come ci ricorda il vangelo, ancor più importante è che il nome di Sant’Ubaldo splenda scritto nel cielo e che a questa meta di santità chiami tutti noi. La meta della santità, costituisce anche nel tempo presente il compito affidato alla testimonianza che i credenti sono chiamati ad offrire al Signore Risorto, così che egli possa risplendere come speranza per l’umanità. Lo abbiamo ribadito nel recente Convegno ecclesiale nazionale di Verona. Vogliamo riascoltarlo con le parole di Giovanni Paolo II, che al termine del grande Giubileo dell’anno 2000 ci ha riproposto la santità come «“misura alta” della vita cristiana ordinaria», che tutti quindi ci interpella a vivere, per usare le parole di Benedetto XVI, rispondendo con il “sì” della fede al «grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza». Così sperimenteremo per noi e saremo capaci di testimoniare agli altri la bellezza della vita cristiana, come essa sia compimento pieno e ulteriore di ogni nostra attesa, gioia perfetta che nulla può oscurare e che non avrà mai fine.
    + Giuseppe Betori

    Cattedrale di Gubbio
    16 maggio 2007 – Festa di Sant’Ubaldo

  3. #13
    Moderatore Globale L'avatar di Vox Populi
    Data Registrazione
    Apr 2006
    Località
    casa mia
    Messaggi
    63,438
    Link ai documenti ufficiali relativi alla 57a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (Città del Vaticano, 21-25 maggio 2007)

    Prolusione del Presidente Mons. Angelo Bagnasco in apertura dei lavori (Aula del Sinodo, 21/05)

    Omelia del Nunzio Apostolico per l'Italia, Mons. Giuseppe Bertello durante la concelebrazione con i Vescovi italiani (Basilica Vaticana, 23/05)

    Intervento del Santo Padre Benedetto XVI al termine dell'esecuzione dell'Oratorio "Resurrexi" e indirizzo di omaggio del Presidente Mons. Angelo Bagnasco prima dell'Oratorio stesso (Aula Paolo VI, 23/05)

    Indirizzo di omaggio del Presidente Mons. Angelo Bagnasco al Santo Padre prima del Suo discorso ai Vescovi italiani (Aula del Sinodo, 24/05)

    Discorso del Santo Padre Benedetto XVI ai Vescovi italiani (Aula del Sinodo, 24/05)

  4. #14
    Moderatore Globale L'avatar di Vox Populi
    Data Registrazione
    Apr 2006
    Località
    casa mia
    Messaggi
    63,438
    INTERVISTA RILASCIATA DA S.E. MONS. ANGELO BAGNASCO ALLA TRASMISSIONE "A SUA IMMAGINE" (27/05/07)

    D. Fra i diversi temi trattati in questa assemblea generale della Cei, due sono andati sulle prime pagine dei giornali: la povertà e la famiglia. Prima di parlarne, volevo chiederle un’impressione personale: è stato il suo esordio in un’assemblea dei vescovi italiani come loro presidente…
    R. - È stata una bella esperienza della Chiesa che è in Italia. Una bella esperienza di fraternità episcopale, tra vescovi che mettono insieme la loro passione, l’amore per le Chiese particolari, le preoccupazioni, le urgenze che hanno nelle loro agende pastorali, per poter sempre meglio individuare dei passi efficaci in ordine all’evangelizzazione.

    D. A proposito di preoccupazioni e di urgenze, i giornali hanno dato molta enfasi al suo allarme sui pacchi viveri. In sostanza, lei ha detto che – secondo quanto riferito ai vescovi dalla Caritas e dalle persone impegnate in prima linea – sta crescendo la povertà: a rischio sono anche le famiglie del ceto medio… Lei vede delle soluzioni?
    R. - Le soluzioni sono, nell’immediato, continuare ad intensificare la nostra vicinanza operosa alla gente, attraverso Caritas e centri di ascolto, per essere sempre più puntuali e generosi nella risposta immediata ai bisogni che richiedono degli interventi. Più in generale, solo una sensibilizzazione più corale a tutti i livelli può far fronte ad una situazione che abbiamo sempre monitorato, ma che ci preoccupa particolarmente in questi ultimi tempi. E ci preoccupa soprattutto in riferimento alle famiglie, perché i giovani non possono programmarsi una famiglia se non hanno anche determinate garanzie dal punto di vista economico e sociale.

    D. Le famiglie sono scese in piazza il 12 maggio nel family day. Lei lo ha definito “un’espressione della società civile, di cui occorre tenere conto”. In concreto, cosa ha significato secondo Lei?
    R. - Il messaggio delle famiglie che sono scese in piazza il 12 maggio è molto semplice e festoso, ma anche molto convinto e chiaro. La famiglia è stata rilanciata e riproclamata, dalla presenza concreta di tante persone, genitori e figli, come il nucleo fondante, irrinunciabile ed ineguagliabile di ogni società… come dice anche il dettato costituzionale.

    D. A marzo, la Cei ha scritto una nota su famiglia ed unioni di fatto. In molti l’hanno vista come un’intrusione ed hanno accusato i vescovi di fare politica.
    R. I vescovi del Consiglio permanente hanno semplicemente ribadito un valore fondamentale che non è di tipo confessionale, ma innanzitutto umano, secondo l’esperienza universale. Tutti lo riconoscono, anche la nostra Costituzione. Lo abbiamo fatto perché questo valore non sia oscurato né diminuito nel nostro contesto sociale.

    D. Quindi, secondo Lei, i vescovi non hanno fatto politica?
    R. Assolutamente. Hanno proclamato e ricordato fermamente, con convinzione e rispetto, un valore fondamentale sia per la tradizione della Chiesa che per quella della società umana.

    D. Come interpreta il presidente dei vescovi italiani l’espressione “dare a Cesare quel che è di Cesare e dare a Dio quel che è di Dio”?
    R. Come l’ha sempre interpretata la Chiesa: da un lato, con la volontà di non sovrapporre le responsabilità; dall’altro, con il desiderio – che poi corrisponde anche ad un preciso dovere – di una collaborazione fra ogni istituzione, ogni soggetto, ogni ente, ciascuno secondo le proprie peculiarità, alla costruzione del bene comune. Con tutti gli uomini di buona volontà.

    D.Mercoledì scorso, 23 maggio, è stato il 15.esimo anniversario della strage di Capaci… Proprio in queste settimane, ci sono state delle minacce alla Chiesa impegnata in prima linea nel sud: sono stati devastati dei campi recuperati dai sequestri ai mafiosi.
    R. L’attenzione della Conferenza episcopale verso il sud è un’attenzione particolarissima ed anche molto efficace, attraverso degli aiuti precisi: come il Progetto Policoro, che riguarda il sostegno all’inserimento sociale dei giovani, ad iniziative lavorative e così via. Sicuramente l’azione della Chiesa, di evangelizzazione e di promozione a tutti i livelli, continuerà nonostante queste intimidazioni. Fa parte un po’ della vita della Chiesa, dei suoi vescovi, dei suoi pastori, di tanti credenti subire qualche incomprensione e talvolta qualcosa di più.

    D. Non capita però a tutti i vescovi di ricevere delle pallottole… Lei personalmente come l’ha vissuta?
    R. Con molta serenità. Sinceramente, con molta serenità, senza particolare paura. Ritengo e spero che non ci sia motivo di avere paura, non solo per me ma anche per il bene ed il clima di tutto il Paese. Si va avanti serenamente, facendo il proprio dovere, con molto rispetto ma anche con chiarezza. Spero solo che il clima si distenda il più possibile, per il bene di tutti.

    D. Lei crede di essere stato frainteso?
    R. Decisamente. Come ho già detto, anche nella prolusione ai vescovi, e come anche ho fatto scrivere dalla mia Curia immediatamente il giorno successivo alle minacce. Erano finiti sui giornali alcuni titoli davvero fuorvianti e distorti, per quello che mi era stato attribuito: pensieri mai pensati. C’è stata una grande incomprensione che però neppure le precisazioni immediate sono riuscite a chiarire definitivamente.

    D. Ci sono degli argomenti sui quali la Chiesa si esprime abbastanza spesso, causando un dibattito: l’aborto, ad esempio, o l’eutanasia. Lei non li ha citati espressamente nella prolusione a questa assemblea generale, però ha ricordato che la concezione della persona, anticipata dalla filosofia greca, è comunque un’acquisizione del cristianesimo, e per il cristianesimo la persona non è una fase della vita. Si è persona anche quando non si è nel pieno delle proprie capacità, e pure quando queste capacità non sono ancora sviluppate…
    R.Io direi: anche quando non si è nel pieno delle proprie operazioni, perché le capacità si hanno sempre e comunque, fin dal primo momento. Certo, su questi temi fondamentali la Chiesa ha il dovere di dire una parola: non solo illuminata dalla sua fede, perché allora sarebbe un discorso meramente confessionale, ma illuminata anche dalla ragione, dal buonsenso umano, dalla tradizione universale. In forza di questa ragione, la Chiesa, i vescovi, la comunità cristiana non possono esimersi da una parola su questioni che toccano l’umanità dell’uomo, la sua natura. Senza mettere a fuoco la persona umana, senza la definizione corretta di persona umana, tutte le questioni che Lei ha citato non possono essere risolte in modo coerente.

    D.Un altro tema che suscita dibattiti accesi è la posizione della Chiesa rispetto all’omosessualità. La Chiesa è omofoba?
    R. - Nel modo più assoluto. Tanto è vero che – come ho detto anche nella prolusione – la Chiesa accoglie continuamente chiunque si avvicina a lei con estrema attenzione, rispetto, desiderio di comprensione e di aiuto secondo le proprie possibilità, senza escludere nessuno. Questo non significa non avere dei criteri di giudizio su determinate situazioni: sono criteri che offriamo in modo rispettoso verso le persone, che vengono comunque accolte e servite.

    D. Lei spesso ripete che la gente è dalla parte della Chiesa e che con le istituzioni va tutto bene: nella prolusione ha anche citato il presidente Napolitano. Allora, perché il clima sembra così teso verso la Chiesa?
    R. Ho citato le parole del presidente Napolitano perché sono parole di altissimo livello, che destano riconoscenza, da parte mia personale e di tutti noi, e grande ammirazione. Credo che le sue parole contribuiscano alla costruzione, alla positività del clima e della crescita di tutto un Paese. Per quanto riguarda le istituzioni, io penso che ci sia da parte di tutti – e da parte nostra, nel modo più assoluto – il desiderio di chiarezza, di rispetto reciproco, di confronto leale e non pregiudiziale su questioni fondamentali con la volontà di costruire il meglio, ognuno secondo la propria responsabilità. Per quanto riguarda certi momenti di tensione, io credo che a volte – come succede nella storia – ci vogliono essere interessi pregiudiziali di qualche tipo che vogliono creare confusione. Ma ciò accade per un interesse particolare, non per il bene del Paese. Di fronte a questi filtri, a queste intenzionalità, la Chiesa si pone com’è, semplicemente, sperando che poi le cose vengano superate.

    fonte

  5. #15
    Moderatore Globale L'avatar di Vox Populi
    Data Registrazione
    Apr 2006
    Località
    casa mia
    Messaggi
    63,438
    29/06/2007 - Nota pastorale dell'Episcopato italiano "dopo Verona"

    Pubblicata la Nota pastorale dell'Episcopato italiano dopo il 4° Convegno Ecclesiale Nazionale dal titolo "Rigenerati per una speranza viva" (1 Pt 1,3): testimoni del grande "si" di Dio all'Uomo. La Nota si apre con la presentazione di S.E. Mons. Angelo Bagnasco, Presidente della CEI. “Con questa Nota pastorale, approvata nel corso della 57ª Assemblea Generale (Roma, 21-25 maggio 2007), noi, vescovi italiani, riconsegniamo alle diocesi la ricchezza dell’esperienza vissuta nel 4° Convegno ecclesiale nazionale Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, tenutosi a Verona dal 16 al 20 ottobre 2006” scrive il Presidente della CEI -. Il documento, da leggere in coerenza e continuità con gli Orientamenti pastorali per il decennio Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, rimanda ai numerosi testi elaborati in occasione del Convegno ecclesiale e destinati alla pubblicazione: essi comprendono la sintesi dei contributi preparatori, le meditazioni e i discorsi pronunciati a Verona, fra cui spiccano le parole illuminanti del Santo Padre, i risultati dei gruppi di studio sui diversi ambiti della testimonianza e le conclusioni generali del Convegno. Tutti insieme, costituiscono un nutrito patrimonio di idee e di riflessioni di cui fare tesoro e da approfondire nel prosieguo del cammino”. Pur tenendo conto dell’intero iter del Convegno, aggiunge l’Arcivescovo Bagnasco “questo testo non può certo sintetizzare l’amplissima quantità delle indicazioni emerse dai diversi contributi; ci proponiamo piuttosto di far risaltare gli aspetti che paiono maggiormente fecondi e sui quali dovrà concentrarsi l’attenzione delle Chiese particolari, in vista delle scelte operative che ciascuna di esse è chiamata a compiere. Affidiamo la Nota alle comunità ecclesiali perché, alla luce del cammino condiviso, rinnovino l’impegno a sostenere l’itinerario spirituale ed ecclesiale dei singoli battezzati, chiamati ad essere in questo tempo e in questo nostro amato Paese Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”.

    Il testo della Nota

    fonte: Conferenza Episcopale Italiana

  6. #16
    Gilbert
    visitatore
    La Prolusione di sua Ecc.za Mons. Angelo Bagnasco

    http://www.chiesacattolica.it/cci_ne...7-19sett07.doc

  7. #17
    Moderatore Globale L'avatar di Vox Populi
    Data Registrazione
    Apr 2006
    Località
    casa mia
    Messaggi
    63,438
    Giornata per la vita 2008

    “I figli sono una grande ricchezza per ogni Paese: dal loro numero e dall’amore e dalle attenzioni che ricevono dalla famiglia e dalle istituzioni emerge quanto un Paese creda nel futuro. Chi non è aperto alla vita, non ha speranza. Gli anziani sono la memoria e le radici: dalla cura con cui viene loro fatta compagnia si misura quanto un Paese rispetti se stesso”. Si apre così il Messaggio del Consiglio Episcopale Permanente in occasione della 30ª Giornata nazionale per la vita dal titolo “Servire la vita” che sarà celebrata il 3 febbraio 2008. “La vita ai suoi esordi, la vita verso il suo epilogo. La civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di servire la vita – prosegue il Messaggio -. I primi a essere chiamati in causa sono i genitori. Lo sono al momento del concepimento dei loro figli: il dramma dell’aborto non sarà mai contenuto e sconfitto se non si promuove la responsabilità nella maternità e nella paternità. Responsabilità significa considerare i figli non come cose, da mettere al mondo per gratificare i desideri dei genitori; ed è importante che, crescendo, siano incoraggiati a “spiccare il volo”, a divenire autonomi, grati ai genitori proprio per essere stati educati alla libertà e alla responsabilità, capaci di prendere in mano la propria vita”.

    LINK AL TESTO DEL MESSAGGIO

    fonte: Conferenza Episcopale Italiana
    Genus humánum, in ténebris ámbulans,
    ad fídei claritátem per mystérium incarnatiónis addúxit.
    (Praefatio de Dominica IV in Quadragesima [A])

  8. #18
    CierRino d'oro L'avatar di ITER PARA TUTUM
    Data Registrazione
    Sep 2007
    Località
    Chiavari (GE) e Val di Vara (SP)
    Età
    68
    Messaggi
    10,349
    Grazie alla CEI per la chiarezza, anche questa volta!

    Ricordo con dolore i tempi in cui la parola d'ordine nella Chiesa italiana, anche se non scritta, era "i comunisti prendono tutto, bisogna venire a patti e fare tutto quello che dicono per salvare il salvabile".

    Se negli anni '70 la CEI avesse avuto dirigenti come quelli di oggi, in Italia non solo non comanderebbe la Bindi con i suoi DICO e tutto il resto, ma non sarebbe passato nemmeno il divorzio.

  9. #19
    Moderatore Globale L'avatar di Vox Populi
    Data Registrazione
    Apr 2006
    Località
    casa mia
    Messaggi
    63,438
    Intervista al presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco

    Una Chiesa amata dal suo popolo in un Paese
    che ha bisogno di una rievangelizzazione sistematica



    Mario Ponzi

    La Chiesa in Italia non si specchia nell'immagine troppo spesso "spennellata" a tinte ironiche dai media; è una Chiesa che vuole restare lontana dai riflettori, ma sempre pronta a lottare accanto all'uomo nella condivisione quotidiana di gioie e dolori, nell'intento di riaffermare il valore unico della dignità dei figli di Dio. Il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, è da poco meno di dieci mesi Presidente della Conferenza episcopale italiana. Avverte il senso della responsabilità di guidare un gregge disorientato dal ribaltamento di valori iscritti nella natura stessa dell'uomo: dalla famiglia nel senso cristiano del termine, alla vita nascente nel grembo di una madre, alla conclusione naturale della parabola dell'esistenza umana, alla dignità oltraggiata del corpo che gli è donato.
    Mostra però un'assoluta certezza: in Italia c'è una Chiesa che non ha e non vuole avere competenze sulla vita dei partiti e sulla gestione della politica, ma vuole amare e servire il popolo con voce chiara e ferma, forte della consapevolezza di essere Chiesa amata dal popolo "ben al di là della partecipazione alla messa domenicale".
    Il cardinale ha espresso questa sua certezza nell'intervista che ci ha concesso all'indomani della sua creazione cardinalizia.

    Nel marzo del 2008 si compirà il primo anno della sua missione alla guida dei vescovi italiani. In questo periodo ha dovuto affrontare situazioni complesse, soprattutto rispondere a insinuazioni diffuse da certe correnti di pensiero a proposito di argomenti che fanno parte del dna stesso del cristiano. È possibile un sintetico bilancio in questo primo anno di esperienze?

    Vorrei innanzitutto soffermarmi sulla necessità di fare una netta distinzione tra due livelli di valutazione del confronto tra la missione della Chiesa e la realtà nella quale questa missione si svolge. Il primo è un livello mediatico; il secondo è un livello popolare. A livello mediatico è ricorrente una certa posizione critica, spesso addirittura polemica, se non ironica verso la Chiesa, verso il suo magistero, innanzitutto quello del Papa, e poi quello dei vescovi. Mi pare che sia evidente. Ma non esaurisce assolutamente quella che è la realtà del rapporto tra la Chiesa e l'Italia. Vi è infatti un livello preminentemente popolare, che forse non fa notizia e dunque non finisce sui giornali ma nel quale le cose appaiono ben diverse da quelle rappresentate. Noi sacerdoti siamo vicini quotidianamente alla gente; ne condividiamo la vita, ne seguiamo i problemi, le speranze e le gioie, sappiamo che ha bisogno di quei segnali di concretezza e di rinnovamento che tutti promettono ma che nessuno riesce a offrire. Da troppo tempo le donne e gli uomini del nostro paese attendono di poter vedere rifiorire nei cuori la speranza. Noi cerchiamo di far capire loro che per ritrovare la speranza è necessario uscire dalla palude delle parole, rimboccarsi le maniche ed agire seguendo la strada della solidarietà. E dunque accompagnando il cammino quotidiano della gente riusciamo a toccare con mano la stima, la fiducia, l'amore che gran parte del popolo nutre nei confronti della Chiesa. Questo è l'altro livello, il livello popolare. E a questo livello le assicuro che tutte le problematiche, anche le più complesse, sono vissute ed affrontate in maniera molto diversa da quanto allarmisticamente diffondono i media.

    E da cosa nasce, secondo lei, questo amore della gente?

    Sono sotto gli occhi di tutti le innumerevoli opere di carità e di assistenza diffuse su tutto il territorio nazionale riconducibili alla Chiesa. Non solo parole dunque ma opere concrete. Di qui nasce l'amore e per questo, io credo, quella della Chiesa in Italia è una voce ascoltata. Mi rendo conto che questo suo configurarsi come Chiesa popolare evidentemente dà molto fastidio a qualcuno, anzi a diversi soggetti. Non mi meraviglio più di tanto, dunque, di quegli attacchi sistematici portati attraverso i media, nel contesto di una strategia denigratoria contro la Chiesa.

    Come può crescere secondo lei questo "sensus ecclesiae" nell'anima degli italiani?

    Qui si inserisce la particolarità della nostra Chiesa, il cui Primate è Benedetto XVI. Per me, come per tutto l'episcopato italiano, il magistero di Benedetto XVI - che è un magistero quanto mai fecondo, pacato, deciso nella sua proposizione - rappresenta un incitamento e un modello da seguire con sempre maggiore amore e con grande disponibilità. È chiaro che avvertiamo la necessità di rinnovare e rilanciare sempre più l'impegno della nuova evangelizzazione in Italia. Per i suoi trascorsi, per il suo privilegio di ospitare la sede di Pietro, il Paese ha una configurazione particolarissima nel panorama europeo, ma ciò non toglie che ha bisogno di un'accurata rievangelizzazione sistematica, perché quel sentimento diffuso e profondamente cristiano che sta alla base del nostro popolo ha bisogno di essere non solo mantenuto ma anche arricchito delle verità della fede e delle ragioni della fede per poter tornare ad essere sempre più missionario.

    E come conciliare questa tensione missionaria con le sfide che si presentano nella quotidianità? A parte i vecchi nodi etici e morali ora si aggiungono la commercializzazione delle pillole abortive, la clonazione delle cellule e così via.

    La strada è una sola: quella della ricerca responsabile. Rappresentare questioni etiche non significa rallentare la scienza; anzi: le recenti acquisizioni hanno dimostrato il contrario.

    Cosa pensa lei, che ha maturato lunghi anni di esperienza accanto ai militari italiani come Ordinario, della presenza dei soldati italiani nei paesi in guerra, soprattutto considerando il pesante tributo di sangue che continuano a pagare per riportare la pace in diverse zone del mondo?

    Voglio innanzitutto cogliere anche questa occasione per rinnovare i sentimenti di profondo dolore per la morte del maresciallo Daniele Paladini in Afghanistan. Un dolore che esprimo assicurando la nostra vicinanza alla sua famiglia, in particolare al bambino del giovane maresciallo.
    Certo la nostra speranza è che fatti di questo tipo, di violenza e di sangue non accadano mai, nella vita di nessuno.
    Purtroppo, come constatiamo quotidianamente in questa marcia dolorosa del mondo verso la pace, ciò non è possibile e c'è sempre un prezzo ingiusto da pagare. Per quanto riguarda la nostra presenza nella missione di pace in Afghanistan mi pare che in tutte le forze politiche e culturali del Paese ci sia la determinazione di continuare a sostenere la presenza dei militari di ogni nazione in un quadro ben definito e soprattutto con il beneplacito dell'Onu. In questo quadro credo che anche la presenza dell'Italia, come del resto quella di tante altre nazioni, debba essere esclusivamente di cooperazione pacifica verso la ricomposizione di questo tormentato Paese che giustamente aspira alla libertà, alla convivenza pacifica e al benessere.

    Ci sono altre persone che giungono in Italia proprio alla ricerca di quella stessa libertà e di quello stesso pacifico benessere. Ma le difficoltà da affrontare sono enormi: gli immigrati vengono visti come un problema piuttosto che come persone da aiutare.

    Non lo ritengo un problema. Anzi. La presenza degli immigrati è una presenza che cresce e che fa crescere. Lo si nota soprattutto frequentando le comunità parrocchiali le quali, devo dire, si fanno sempre più comunità accoglienti, allargate. Lo vedo nelle visite pastorali che faccio. Lo vedo nelle numerosissime, magari piccole ma concrete iniziative cui si dà vita nelle diverse realtà, che manifestano un certo fervore di attività dei cristiani a favore degli emarginati, dei più poveri. Insomma si nota un certo tipo di mentalità d'accoglienza nella comunità cristiana.

    Tuttavia dalle cronache appare diversamente.

    È vero, ma torniamo al problema di prima, quello dei due livelli: il tessuto ecclesiale è capillarmente diffuso in tutto il Paese. Parrocchie, movimenti, organizzazioni cattoliche, associazioni e quant'altro costituiscono una rete di tanti piccoli punti di ascolto che danno delle risposte, forse parziali, ma comunque risposte alle esigenze dei gruppi di immigrati. Eppure questo non fa notizia, non comporta titoloni sui giornali. E dunque di immigrati ci si occupa solo quando accadono fatti eclatanti. Il tessuto ecclesiale offre ben altro. È chiaro che esiste la necessità di dare una forma di educazione all'integrazione, di aiutare gli immigrati ad assumere le categorie portanti della nostra cultura. Ciò è particolarmente importante se si vuole veramente passare da una multiculturalità - che è una semplice registrazione di tante presenze - ad un regime di interculturalità e di integrazione progressiva e decisa di diverse culture, sulla base del rispetto delle regole fondamentali della nostra civiltà.

    Ma la Chiesa che è in Italia ha forze sufficienti per affrontare impegni così onerosi visto il preoccupante rallentamento delle vocazioni? Quale potrà essere il ruolo dei laici?

    Parto da quest'ultima considerazione. Il ruolo dei laici nella vita della Chiesa in Italia, è un ruolo di grande rilievo e di grande responsabilità ma che deriva, sia ben chiaro questo concetto, non tanto, o non solo dalla carenza delle vocazioni sacerdotali. Anzi io ritengo quest'affermazione certamente strumentale e fuorviante dalla realtà. Perché impegno e ruolo dei laici derivano innanzitutto dal battesimo di ciascuno, è una responsabilità profonda, poiché è proprio dal sacramento del battesimo che nasce il dovere della responsabilità per ogni cristiano. Dunque i laici sono una ricchezza della nostra Chiesa. Naturalmente il loro impegno deve essere commisurato alle competenze e responsabilità proprie. Io nella mia esperienza posso testimoniare il desiderio da parte di molti laici a partecipare alla vita della Chiesa, anche se oggi dobbiamo considerare che la vita è oggettivamente più complicata. L'auspicio è che la partecipazione dei laici sia sempre più intensa ma anche ben motivata e sostenuta da una forte vita spirituale e da una buona preparazione culturale. Per quanto riguarda poi il tema delle vocazioni è chiaro che molto dipende dalla testimonianza che noi sacerdoti siamo chiamati a dare della gioia immensa che deriva dalla nostra vocazione. C'è però da considerare la maggiore difficoltà che si incontra, oggi più che in altre epoche, nel far passare un messaggio alle nuove generazioni. I giovani sono molto più frastornati e dunque è più difficile far arrivare una voce nel contesto stravagante e assordante in cui vivono.
    Dobbiamo cercare nuove forme di approccio, ma soprattutto rinnovare la nostra preghiera perché il Signore non faccia mancare operai alla sua vigna.



    (©L'Osservatore Romano - 28 novembre 2007)

  10. #20
    Moderatore Globale L'avatar di Vox Populi
    Data Registrazione
    Apr 2006
    Località
    casa mia
    Messaggi
    63,438
    Conferenza Episcopale Italiana
    CONSIGLIO PERMANENTE
    Roma, 21-24 gennaio 2008


    PROLUSIONE
    DEL CARDINALE PRESIDENTE



    Venerati e Cari Confratelli,

    all’inizio del nostro Consiglio Permanente vogliamo rinnovare al Santo Padre Benedetto XVI la nostra incondizionata e cordiale condivisione, insieme all’ammirazione per il suo diuturno servizio pontificale a bene della Chiesa tutta. Il suo alto Magistero e l’esempio della sua dedizione serena, mite e forte per annunciare la verità di Cristo – nella cui luce si riscopre il volto autentico dell’uomo e si salvaguarda lo specifico della persona e della società – sono di sprone per tutti noi e per le nostre Comunità. Vicinanza e ammirazione, anzi amore vero verso il Papa, ci sono genuinamente testimoniati dal popolo delle nostre Chiese.

    1. Questa comunione affettiva ed effettiva la rinnoviamo a pochi giorni da un grave episodio di intolleranza che ha indotto il Santo Padre a soprassedere rispetto alla visita da tempo programmata alla Sapienza. Università che da oltre settecento anni vive in quella Roma dove Vescovo è il Papa. Il clima di ostilità, creato da una minoranza assolutamente esigua di docenti e studenti, ha infine suggerito questa amara soluzione, essendo venuti meno – come ha scritto il Cardinale Tarcisio Bertone al Rettore – “i presupposti per un’accoglienza dignitosa e tranquilla”. Una rinuncia quindi che, se si è fatta necessariamente carico dei suggerimenti dell’Autorità italiana, nasce essa stessa da un atto di amore del Papa per la sua città. Tutt’altro, dunque, che un tirarsi indietro, come qualcuno ha pur detto, ma una scelta magnanime per non alimentare neppure indirettamente tensioni create da altri e che la Chiesa certo non ama, pur dovendole spesso suo malgrado subire.
    Grande è stata la sorpresa e ancor più grande la tristezza dinanzi a quanto accaduto, in particolare per quella considerazione che da sempre la Chiesa nutre nei confronti dell’istituzione universitaria – basterebbe pensare a come e dove sono nate le Università – e che il discorso del Santo Padre preparato per l’occasione è stata riproposta con argomentazioni assolutamente pregnanti e originali. La risposta che Benedetto XVI ha dato alla domanda sulla “vera, intima origine dell’Università”, la risposta – dicevo – è da iscriversi idealmente sul frontespizio di ogni ateneo: soddisfare “la brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuole sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole la verità”. È con questa vocazione squisitamente propria dell’università che deve in ultima istanza confrontarsi anche chi si è sottratto all’incontro col Papa. Di qui il rammarico – non solo nostro, ma generale – nel dover constatare che il “luogo” privilegiato dello studio e del confronto tra intelligenze libere – qual è l’Università, che per questo diventa scuola di vita – si sia precluso di fatto ad una presenza di universale autorevolezza e ad un apporto accademico altissimo, cui ambiscono Università di tutto il mondo. Questi d’altra parte sono gli esiti del settarismo illiberale, antagonista per partito preso, che assumendo per pretesto la nota e ormai ben indagata vicenda di Galileo, hanno superficialmente manipolato la posizione a suo tempo espressa da Joseph Ratzinger, facendone una bandiera impropria per imporre la loro chiassosa volontà.
    Come cittadini e come Vescovi d’Italia non possiamo non essere preoccupati. Seppur ci conforta che l’assenza forzata all’incontro è presto diventata una presenza assai più dilatata del previsto. L’importante discorso non solo è stato letto alla Sapienza, ma è stato anche pubblicato su numerosi giornali, guadagnando allo stesso un ascolto incomparabile. La straordinaria folla di fedeli e di cittadini che ieri, domenica, sono convenuti su invito del Cardinale Vicario in Piazza San Pietro per la recita dell’Angelus, è la testimonianza fedele dei sentimenti forti che albergano nel popolo italiano. Il che ci induce, nonostante tutto, a guardare avanti e ad avere fiducia. Fiducia nel buon senso che da sempre connota la nostra gente, e che è congenitamente estraneo all’intolleranza. Fiducia nel buon senso comune. Fiducia nella forza della ragione aperta alla verità. Fiducia nella tradizione culturale del nostro Paese, che ha sempre considerato il dialogo tra fede e ragione la sorgente viva e vitale di progresso e di civiltà.

    2. Cari Confratelli, allargando ora lo sguardo, possiamo dire che veniamo da mesi intensi di attività, ma anche, grazie a Dio, di riflessioni e acquisizioni spirituali importanti che, in particolare, ci sono state offerte con ritmo incalzante dal Santo Padre. Alla luce del recente Natale le nostre comunità sono state sospinte a chiedersi: “Abbiamo tempo e spazio per Dio? Può Egli entrare nella nostra vita? Trova uno spazio in noi, o abbiamo occupato tutti gli spazi del nostro pensiero, del nostro agire, della nostra vita per noi stessi?” (Omelia della Messa di Mezzanotte, 25 dicembre 2007).
    A questo proposito, come Vescovi ci sentiamo interpellati in maniera tutta speciale. Al pari degli Apostoli, e in quanto loro successori, infatti “siamo stati chiamati innanzitutto per stare con Cristo, per conoscerlo più profondamente ed essere partecipi del suo mistero d’amore e della sua relazione piena di confidenza con il Padre” (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla Riunione dei Vescovi di recente nomina, 22 settembre 2007). E poiché è questo il nostro fondamentale “programma apostolico”, va da sé che in esso rientra la preghiera che nutre il nostro legame con Pietro, e quella per Pietro stesso. È, dunque, con questa ispirazione che diamo avvio ai lavori della sessione invernale del Consiglio Permanente, svolgendo anzitutto un esercizio di discernimento collegiale sulla situazione presente.

    3. Per l’inizio del tempo di Avvento, Benedetto XVI ha offerto alla Chiesa universale la sua seconda enciclica: “Spe salvi”, che ha suscitato una vasta eco all’interno della comunità cristiana ma anche nell’opinione pubblica generale. Il che, se da una parte dice qualcosa dell’arsura in cui vivono gli uomini d’oggi, dall’altra ci conforta sul fatto che proposte forti sotto il profilo dei contenuti si possono proficuamente fare anche in una temperie rarefatta come l’attuale. Con uno stile felicemente personale, il Papa elabora una proposta sorprendente che va al cuore e alla mente dei fedeli e dei Pastori. Attraverso una tessitura testimoniale, egli conduce un serrato ragionamento in cui storia, filosofia e teologia si intrecciano per decodificare il desiderio di vita buona e felice che c’è nel cuore dell’uomo e di ogni epoca.
    Mostrando come, ad un certo punto del cammino dell’umanità, le due grandi idee-forza, la ragione e la libertà, si sono come sganciate da Dio, per diventare autonome e contribuire all’edificazione di un «regno dell’uomo» praticamente contrapposto al Regno di Dio, il Papa evidenzia il diffondersi di una mentalità materialista, che ha fatalmente illuso e deluso. Se per l’uomo moderno la novità sta nella correlazione, anzi nella sinergia, tra scienza e prassi, e l’attesa viene riposta nella successione stupefacente delle scoperte che hanno contrassegnato gli ultimi secoli, ecco che prende piede l’”ideologia del progresso”, ossia una “visione programmatica” per la quale la restaurazione del paradiso perduto non si attende più dalla fede, ma appunto dallo sviluppo scientifico. “Non è – precisa il Papa – che la fede, con ciò, venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose semplicemente private e ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo” (n. 17). In altre parole, ciò che “ha determinato il cammino dei tempi moderni” è anche ciò che ha influenzato “l’attuale crisi della fede che, nel concreto, è soprattutto crisi della speranza cristiana” (ib.).
    Questo spiega molto bene perché Benedetto XVI non esiti, dinanzi agli effetti di questa congiuntura, ad invocare un atto di revisione profonda. E mentre nel famoso discorso di Ratisbona (12 settembre 2006) aveva avanzato l’esigenza di una seria autocritica da parte della modernità, nell’enciclica odierna va oltre, e sostiene che “nell’autocritica dell’età moderna confluisca l’autocritica del cristianesimo moderno, che deve imparare di nuovo a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici” (n. 22). In altre parole, emerge da qui una grande chance offerta ai cultori della modernità di andare al fondo delle contraddizioni in cui si dimena la cultura odierna e individuare le aporie che sono la causa della grande suggestione che illude ma non convince. Nello stesso tempo, al cristianesimo d’oggi intimidito di fronte ai successi della scienza, e per questo spesso ripiegato solamente in ambito educativo e caritativo (cfr. n. 25), s’impone una ri-centratura sul suo essenziale, per far scaturire da qui una nuova capacità propositiva che eviti al mondo la “fine perversa” descritta già da Kant. Per questo, asserisce il Papa, “la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione” (n. 23).
    Naturalmente nessun commento e nessuna sintesi sostituiscono la lettura del testo dell’enciclica che noi, per la nostra parte, desideriamo porre nelle mani dei fedeli perché ne facciano una lettura personale e comunitaria, che può ravvivare i cammini di catechesi ed essere riferimento per la predicazione speciale dei tempi forti, come ad esempio della prossima Quaresima. Per la riconsiderazione che il Papa fa dei Novissimi, l’enciclica si pone come una concreta risorsa di rinnovamento della nostra pastorale: dal battesimo alla cura delle realtà ultime. Ci affidiamo in particolare ai nostri amati Sacerdoti, perché vogliano vedere in questo testo una autorevole interpretazione della crisi che ai vari livelli investe l’umanità di oggi, per cogliere le possibilità di un dialogo rinnovato che non sia fine a se stesso.

    4. Non credo di sbagliare se dico che è l’Italia, in particolare, ad avere oggi bisogno della speranza. Questo Paese, che profondamente amiamo, si presenta sempre più sfilacciato, frammentato al punto da apparire ridotto addirittura “a coriandoli”, avvertono gli esperti. Proprio la recente analisi contenuta nel Rapporto Censis 2007 avverte che “un’inerzia di fondo … è la cifra più profonda della nostra attuale società”. In essa “si propende a pensare che la colpa di tutto … sia da ricondurre a una complessa e comune incapacità di costruire uno sviluppo partecipato” (pag. XVII). Sembra davvero che, bloccato lo slancio e la crescita anche economica, ci sia in giro piuttosto paura del futuro e un senso di fatalistico declino. Sembra circolare una sfiducia diffusa e pericolosa. Anche da osservatori stranieri arrivano i segnali di una medesima lettura, forse ancora più apocalittica e magari anche non disinteressata. Ma a me pare, che non sia tanto a questi osservatori che dobbiamo essere preoccupati di rispondere verbalmente, quanto che una risposta, quella vera, la dobbiamo dare a noi stessi, e alla ineludibile responsabilità verso il nostro futuro. Diagnosi più circoscritte circa i punti della crisi pubblica che ci affligge peraltro non mancano e il Presidente della Repubblica, nell’incontro prenatalizio con i dirigenti della politica, non ha mancato di farvi riferimento. A noi Vescovi interessa, se possibile, guardare più in profondità, alla crisi interiore che è in parte causa e radice della stessa crisi pubblica, seppur non ci sfuggono le tante, innumerevoli testimonianze di bene che prendono forma sul territorio, e neppure ci sfuggono una diffusa riservatezza e capacità di sopportazione che rappresentano esse stesse, se si vuole, un indizio di possibile ripresa e capacità di futuro.
    Però, pensando ai nostri fratelli, non possiamo non dire loro con le parole dell’enciclica che, seppur avessimo tante piccole o anche grandi speranze “che ci mantengono in cammino”, ma non conoscessimo Dio, saremmo pur sempre privi della grande speranza, quella che “deve superare tutto il resto” (n. 31). Saremmo senza quella resistenza, quella lucidità di giudizio, quella carità profonda che fanno sperimentare la vita, e la vita in abbondanza (cfr. n. 27). Ecco da dove nasce l’offerta della Chiesa al nostro Paese. La Chiesa non vuole e non cerca il potere, come pure viene scritto in questa stagione su taluni giornali. Con la sua testimonianza pubblica e grazie alla capillarità della sua presenza vicina alla gente, la Chiesa vuole aiutare il Paese a riprendere il cammino, a recuperare fiducia nelle proprie possibilità, a riguadagnare un orizzonte comune. A fronte di tanti sforzi che pure vengono condotti, e che hanno bisogno di più energia per affermarsi, c’è davvero bisogno di una speranza più grande delle altre, che possa dare la direzione al cammino futuro.

    5. Lo dicevamo nella recente Nota pubblicata all’indomani del Convegno ecclesiale di Verona (cfr. n. 20). Nel pronunciare il suo sì a Dio, la nostra Chiesa dice sì anche all’uomo concreto, dice sì a questa società con le sue dinamiche complesse e a volte contraddittorie, dice sì alla cultura magmatica eppure vitale in cui è a sua volta inserita. La Chiesa non ha paura di amare. E questo fa: si realizza cioè come la Chiesa del sì, anche quando si vede costretta a dire − senza arroganze e con parresìa − dei leali no. E ogni volta li dice per pronunciare un sì più grande alla vita, alla persona intera, alla giustizia, alla pace, all’amore, alla coscienza, al progresso, al creato; per confermare il sì all’Italia, al suo futuro e alla sua vocazione in seno all’Europa e nel concerto dei popoli.
    5.1. La Chiesa, ad esempio, dice sì alla famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Per questo si oppone alla regolamentazione per legge delle coppie di fatto, o all’introduzione di registri che surrogano lo stato civile. Non la muove il moralismo, o peggio il desiderio di infliggere pesi inutili o di frapporre ostacoli gratuiti. Al contrario, abbiamo a cuore davvero il futuro e il benessere di tutti. Conferendo diritti e privilegi alle persone conviventi, apparentemente non si tolgono diritti e privilegi ai coniugi, ma si sottrae di fatto ai diritti e ai privilegi dei coniugi il motivo che è alla loro radice, ossia l’istituto matrimoniale che nessuno – a questo punto − può avere l’interesse a rendere inutile o pleonastico, o a offuscare con iniziative, quali il divorzio breve, che avrebbero la forza di incidere sulla mentalità e il costume, inducendo atteggiamenti di deresponsabilizzazione. Un importante uomo di cultura, il prof. Aldo Schiavone, in un articolo del 24 dicembre, tra l’altro scriveva: “Quel che chiamiamo famiglia è infatti una costruzione sociale che non ha al suo interno nulla di prestabilito in eterno. Tutto in essa è solo storia …”. Individuando in un simile assunto la tipologia di tante affermazioni, talora anche strampalate, ci permettiamo con rispetto di obiettare radicalmente a questa posizione: certamente le forme culturali hanno il loro peso nell’espressività dell’uomo e persino nella definizione che l’uomo riesce a dare di sé, ma non arrivano al punto di manomettere la figura umana tipica e distintiva. La struttura della famiglia non è paragonabile ad un’invenzione stagionale, e questo almeno per due motivi. Il primo, è relativo alla indubitabile complementarietà tra i due sessi; il secondo, riguarda il bisogno che i figli hanno, e per lunghi anni, di entrambe le figure genitoriali, quanto meno per il loro equilibrio psichico e affettivo. Il nostro Paese ha bisogno della struttura che è garantita dalle famiglie vere per continuare a dare a se stesso un impianto di solidità e di slancio in avanti. È una problematica questa che, per la verità, non investe solo l’Italia, anzi per certi versi la investe meno di altri Paesi. Il che spiega, ad esempio, perché c’è stato nell’ottobre scorso, a Fatima, un incontro dei Presidenti delle Conferenze episcopali d’Europa che hanno messo a fuoco la loro convergente preoccupazione sul futuro della famiglia, svanendo la quale si metterebbe peraltro a repentaglio il futuro dell’Europa stessa. Di qui il riproporsi significativo, al di là dei confini nazionali, di iniziative come il nostro Family Day che per nessuno voleva essere e per nessuno è stato una minaccia, ma piuttosto l’indicazione di una via da percorrere.
    5.2. La Chiesa, mentre fermamente si oppone alle discriminazioni sociali poste in essere a motivo dell’orientamento sessuale, dice anche la propria contrarietà all’equiparazione tra tendenze sessuali e differenze di sesso, razza ed età. C’è un gradino qualitativo che distanzia le prime dalle seconde, e non è interesse di alcuno misconoscere la realtà che appartiene alla struttura dell’essere umano in quanto tale. Come non scorgere nelle teorie che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona, quasi che queste siano una mera convenzione pseudo-culturale, un’accentuazione oggettivamente autolesionistica, un deprezzamento alla fin fine della stessa corporeità che si vorrebbe unilateralmente esaltare? Facile obiettare che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in queste questioni: diciamo anche noi, con Benedetto XVI (nel Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2006), forse che la persona non ci deve interessare? Come facciamo a non curarci del destino e della felicità di coloro al cui servizio siamo mandati?
    5.3. È ancora per dire sì alla dignità della persona che la Chiesa denuncia la logica relativistica che domina nei consessi internazionali, per la quale l’“unica garanzia di una umana convivenza pacifica tra i popoli, (è) il negare la cittadinanza alla verità sull’uomo e sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale”: sono parole di Benedetto XVI, pronunciate alle Organizzazioni non governative cattoliche che erano andate a visitarlo il 1° dicembre scorso. Difficile non vedere annidata proprio qui una delle contraddizioni più vistose della politica internazionale: da una parte si dà la giusta priorità, in faccia a qualunque regime politico, al rispetto dei diritti umani fondamentali dell’uomo, dall’altra spregiudicatamente si nega questo o quel diritto in funzione di campagne mirate, e adottate per interessi materiali o imposte per pressioni ideologiche. Quanto all’Unione Europea, non possiamo non apprezzare i risultati del recente vertice di Lisbona nel quale è stato solennemente firmato il nuovo Trattato europeo, che ha come parte integrante la Carta dei diritti dei cittadini. Mentre si attendono le necessarie ratifiche da parte dei singoli Stati, non possiamo non auspicare che di questi documenti vengano date interpretazioni non forzate e non strumentali nella logica di un’esasperazione dei diritti esclusivamente individuali. Resta peraltro attuale l’esigenza, più volte avanzata in passato, di garantire il rispetto delle specifiche identità culturali e delle tradizioni dei Paesi membri, nella piena valorizzazione del principio di sussidiarietà e dei limiti di competenza dell’Unione europea.
    C’è da dire che nel Messaggio che Benedetto XVI ha pubblicato in occasione della recente giornata per la Pace del 1° gennaio 2008, incentrato su “Famiglia umana, comunità di pace”, oltre che essere indicate la reale interdipendenza e le profonde connessioni che legano il nucleo primario della società agli effettivi destini del mondo, è individuato anche il vincolo necessario tra la norma giuridica e la legge naturale. Dove la prima, “la norma giuridica che regola i rapporti delle persone tra loro, disciplinando i comportamenti esterni e prevedendo anche sanzioni per i trasgressori, ha come criterio la norma morale, basata sulla natura delle cose”. Il Papa non tace sulla ragione dei troppi arbitrii che si registrano nelle relazioni tra gruppi umani e tra gli stati, osservando che, “sì, le norme esistono, ma per far sì che siano davvero operanti bisogna risalire alla norma morale naturale come base della norma giuridica, altrimenti questa resta in balìa di fragili e provvisori consensi” (n. 12). E subito dopo aggiunge. “La crescita della cultura giuridica nel mondo dipende, tra l’altro, dall’impegno di sostanziare sempre le norme internazionali di contenuto profondamente umano” (n. 13).

    6. Una vasta eco ha avuto nel mese di dicembre la moratoria contro la pena di morte votata nell’assemblea dell’Onu da 104 Paesi. Ai quali è vivamente auspicabile che altri Paesi via via si aggiungano, come sta già accadendo, a condividere un fondamentale approdo di civiltà giuridica e di consapevolezza delle insopprimibili ragioni di ogni vita umana. Com’è noto, per raggiungere questo risultato, molto ha lavorato l’Italia, che infatti è stata riconosciuta come la vera artefice dell’importante pronunciamento. Ci piace qui rilevare come questo obiettivo, al nostro interno, sia stato perseguito sia dalla società civile che dai responsabili politici, in una fruttuosa complementarietà che ha procurato all’iniziativa diplomatica il più vasto consenso popolare.
    Era in qualche modo inevitabile che, votata la moratoria contro la pena di morte comminata dagli Stati come sanzione ai delitti più gravi, si ponesse l’attenzione ad un’altra gravissima situazione di sofferenza del nostro tempo qual è, con l’aborto, l’uccisione di esseri innocenti e assolutamente indifesi. È vero che concettualmente non c’è perfetta identità tra le due situazioni, ma solo una stringente analogia, che tuttavia non fa certo derivare la condanna dell’aborto da quella della pena di morte, giacché il delitto di aborto è, come avverte il Concilio Vaticano II (GS n. 51), abominevole di per sé, ed è un’ingiustizia totale. Come non valutare benefica la discussione che, nel nostro Paese, si è aperta nel corso delle ultime settimane, e come non essere grati a chi per primo, da parte laica, ha dato evidenza pubblica alla contraddizione tra la moratoria che c’è e quella che fatichiamo tanto a riconoscere?
    Il fatto che, a trent’anni dall’approvazione della legge 194 che rende giuridicamente lecito l’aborto, la coscienza pubblica non abbia “naturalizzato” ciò che naturale non è, è un risultato importante, di cui dobbiamo dare atto a chi − per esempio il Movimento per la vita − mai si è rassegnato. E fin dal primo momento ha cercato di promuovere un’iniziativa amica delle donne che le aiuti nella decisione, talora faticosa, di accettazione dell’esistenza diversa da sé che ormai è accesa in grembo. La Giornata della Vita, che con lungimiranza la nostra Conferenza Episcopale promuove da oltre venticinque anni – è imminente la 30a −, ha certamente contribuito – grazie anche all’apporto dei nostri media − a quell’allerta culturale per la quale la vita umana non può mai, in alcun caso, in alcuna situazione, per alcun motivo, essere disprezzata o negletta. Ha invitato a considerare vita la vita, sempre, fin dall’inizio, e non solo per gli adulti gagliardi ed efficienti.
    Da parte della Chiesa non esiste alcuna “intenzionalità bellica”: dobbiamo continuare a dire che la vita è dono, e che non è nella disponibilità di alcuno manometterla o soffocarla. E dobbiamo ad un tempo ricordare che l’amore umano è sempre associato a una responsabilità che si esprime anche quando lo si intende come gioco distratto e leggero. Quella della vita è una grande causa, la causa che ci definisce e ci qualifica, alla quale noi Vescovi vorremmo che, prima o poi, si associassero davvero tutti.
    Chiediamo, almeno come cittadini di questo Paese, che si verifichi ciò che la Legge – intitolata alla “tutela della maternità” − ha prodotto e ciò che invece non si è attivato di quanto prevede, soprattutto in termini di prevenzione e di aiuto alle donne, e dunque alle famiglie. Inoltre, come si può, solo per questa legge, deliberatamente ignorare il portato delle nuove conoscenze e i progressi della scienza e della medicina e non tener conto che oltre le 22 settimane di gestazione c’è già qualche possibilità di sopravvivenza? Per questo occorre razionalmente non escludere almeno l’aggiornamento di qualche punto della legge, pur continuando noi Vescovi a dire che non ci può mai essere alcuna legge giusta che “regoli” l’aborto. Ci permettiamo anche di suggerire che i fondi previsti dalla legge 194, all’art. 3, magari accresciuti da apporti delle Regioni, siano dati in dotazione trasparente ai consultori e ai centri – comunque si chiamino – di aiuto alla vita, giacché l’esperienza insegna che già pochi mezzi forniti per un primo intervento sono talora sufficienti per dare ascolto alle donne, aiutarle a riconoscere la propria forza, a non sentirsi così sole in una comunità che non può continuare a considerare la maternità un lusso privato e l’aborto una forma di risposta sociale. Ovvio che una simile provvista non esonera la politica della famiglia a dare finalmente risposte adeguate. Tuttavia, è sempre possibile lavorare insieme perché forme concrete di solidarietà trovino spazio, e anche nel campo della maternità non prevalga definitivamente la solitudine, l’estraneità sociale, il disinteresse.

    7. Grande impressione ha suscitato a ridosso delle feste natalizie il rogo che nell’acciaieria torinese della ThyssenKrupp ha procurato la morte – immediata o successiva − di ben sette operai, alcuni dei quali ancora giovani. Il confratello Arcivescovo di Torino, Cardinale Severino Poletto, ha pronunciato nelle omelie delle quattro Messe esequiali parole doverosamente severe, alle quali noi cordialmente ci associamo. Davvero il posto di lavoro non può essere messo in ballottaggio con la vita e il vero progresso non può tollerare condizioni di lavoro tanto rischiose da compromettere ogni anno la salute e la vita di un elevatissimo numero di cittadini. Sono drammi che le nostre comunità parrocchiali conoscono uno ad uno, e a cui i nostri sacerdoti sono vicini. E bisogna dire che anche il cordoglio politico non è mancato e non manca. Ciò a cui forse non si è ancora pervenuti è una sufficiente e corale determinazione a non consentire più eccezioni nei sistemi di messa in sicurezza, nei controlli serrati e inesorabili, nelle politiche delle aziende piccole e grandi. Le organizzazioni imprenditoriali e le singole aziende devono fare un passo avanti in quell’autodisciplina rigorosa e metodica che nel rispetto coscienzioso delle leggi potrà dare risultati importanti. Dal canto suo, la politica non può più limitarsi alle parole o ai provvedimenti che nascono evasivi. Bisogna che ciascuno, per la sua parte di responsabilità, senta che la popolazione è stanca di promesse e misura qui, più che in altri campi, l’affidabilità e credibilità del sistema Paese.
    Affidabilità e credibilità sono vistosamente in gioco anche nella vicenda delle immondizie che da troppo tempo sta affliggendo Napoli e la Campania senza che l’opinione pubblica locale e nazionale riesca a capire come stiano effettivamente le cose: fino a dove c’entra la malavita organizzata e le complicità di cui essa gode, e dove comincia la mala-politica, la latitanza amministrativa, il palleggiamento delle responsabilità, l’ignavia delle istituzioni. Il confratello Arcivescovo di Napoli, Cardinale Crescenzo Sepe, insieme ai Vescovi della Campania, hanno preso posizione ferma, e noi non possiamo che essere solidali con loro.
    Altro versante problematico, nel quale la Chiesa sa di dover dire il suo sì agli italiani, è quello della moralità sociale e della legalità pubblica che sono dimensioni proprie della cittadinanza rispetto ai vincoli collettivi. Situazioni specificatamente delicate si presentano – com’è noto − in alcuni territori del Paese, quelli più interessati dalla malavita organizzata, dalla ‘ndrangheta e dalla mafia, fenomeni che da tempo tendono peraltro a ramificarsi all’esterno, in regioni un tempi immuni e anche – come s’è visto l’estate scorsa − all’estero. Non possiamo, a questo riguardo, non apprezzare ciò che sta avvenendo per iniziativa delle associazioni di volontariato, chiamate Addiopizzo o in altro modo, e anche di importanti associazioni di categoria, grazie alle quali è in atto – secondo un comunicato della Conferenza episcopale siciliana – “un’efficace ribellione della società civile” nei confronti di schiavitù antiche e nuove abusivamente imposte dal racket e dall’usura. Un analogo appello accorato era prima venuto dai confratelli della Calabria, a loro volta impegnati a sostenere le forze buone del riscatto e della rinascita che anche lì sono presenti. A questi Vescovi e alle loro Chiese va la solidarietà convinta della nostra Conferenza, insieme all’impegno per una accorta vigilanza in ogni regione d’Italia.

    8. Nel 60° anniversario della Carta Costituzionale che, specialmente nella sua prima parte, è così antropologicamente significativa – e dunque vera nel senso di non superata – e in un momento della vita sociale così delicato e con varie sfide aperte, non possiamo come Vescovi non rivolgerci all’intera classe politica per esprimerle la nostra considerazione e il nostro incoraggiamento.
    Nessuno si stupisca se in questo quadro diciamo una parola ai politici di ispirazione cristiana, a coloro che tali sono e così si sono presentati al corpo elettorale, al quale devono rispondere. Vogliamo ricordare la parola rivolta da Benedetto XVI all’Internazionale Democratica di Centro e Democratico-cristiana, il 21 settembre 2007. “La dottrina sociale della Chiesa offre, al riguardo, elementi di riflessione per promuovere la sicurezza e la giustizia, sia a livello nazionale che internazionale, a partire dalla ragione, dal diritto naturale ed anche dal Vangelo, a partire cioè da quanto è conforme alla natura di ogni essere umano e la trascende”. Ebbene, si trova qui il motivo per cui, sui temi moralmente più impegnativi, assecondare nelle decisioni una logica meramente politica, ossequiente cioè le strategie o le convenienze dei singoli partiti, è chiaramente inadeguato. Lo è per una coscienza schiettamente morale, ma lo è ad un tempo per una coscienza anche religiosamente motivata. È vero che il Magistero cattolico prevede il voto positivo a provvedimenti, anche su materie critiche, volti “a limitare i danni di una legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica” (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 73), ma questo non è il caso invocabile allorché un provvedimento legislativo è ancora tutto da allestire o viene presentato al Parlamento. In un simile contesto, quando cioè si tratta di avviare proposte legislative che vanno in senso contrario all’antropologia razionale cristiana, i cattolici non possono in coscienza concorrervi. Non c’è chi non veda infatti che una cosa è operare perché un male si riduca, altra cosa è acconsentire, in partenza, che leggi intrinsecamente inique vengano iscritte in un ordinamento. E non si tratta, qui, di un’imposizione esterna, ma di una scelta da operare liberamente in una coscienza “già convenientemente formata” (GS n. 43). Rispetto alla quale non possono esistere vincoli esterni di mandato, in quanto la coscienza è ambito interno, anzi intrinseco, alla persona, e dunque obiettivamente non sindacabile. Il voto di coscienza, in realtà, è una risorsa a esclusivo servizio della politica buona, e dunque – all’occorrenza – può e deve diventare una scelta trasversale rispetto agli schieramenti, e invocabile in ogni legislatura.
    Nessuno pensi che dietro a queste parole ci sia un disegno egemonico che si vuol perseguire. Vale infatti quello che il nostro Papa diceva nella occasione sopra ricordata: “La Chiesa sa che non è suo compito far essa stessa valere politicamente questa sua dottrina: del resto suo obiettivo è servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale” (Ib.). Ed è esattamente questo, non altro, ciò che preme alla nostra Conferenza.
    Ci auguriamo intensamente che, mettendo sempre meglio a fuoco i compiti propri a ciascuno, possa crescere nel nostro Paese una interpretazione più ricca e sempre meno unidirezionale della laicità. Segnali nuovi peraltro, anche solo in Europa, non mancano. Possiamo aspettarci un rapido contagio delle idee nuove che stanno emergendo alla luce anche di condizioni ideali e culturali sempre più problematiche. Studiosi di fama internazionale hanno nei mesi scorsi ripetuto che c’è un posto, nella democrazia, per le religioni, come crogiuolo di senso e di felice appartenenza ad una storia e ad una tradizione. Il che dà identità e serena sicurezza. Non c’è scritto da nessuna parte che un vivace pluralismo culturale debba coincidere con un secolarismo aggressivo e intollerante, come è accaduto nei giorni scorsi. Dire, come pure qualcuno ha detto, che la Chiesa Cattolica ha un’irresistibile vocazione al fondamentalismo significa fare della gratuita polemica, senza la disponibilità a mettere sul tavolo argomenti costruttivi e utili ad un confronto magari vivace, ma non caricaturale.

    9. Sul fronte sociale, le testimonianze che direttamente raccogliamo nei nostri contatti con la gente ci avvertono che nell’anno appena trascorso si sono aggravate le condizioni economiche di molte famiglie. Avevamo già posto in evidenza – nella nostra assemblea del maggio scorso − il fenomeno dell’accresciuto ricorso ai centri di ascolto Caritas e all’aiuto dei “pacchi viveri” da parte di anziani soli e soprattutto di famiglie con figli. Le segnalazioni delle strutture sono proseguite e l’ultimo rapporto della Caritas italiana e della Fondazione Zancan sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia ha fornito una fotografia assai precisa, e per molti versi preoccupante, dello stato di bisogno nel quale sono caduti molti nuclei familiari. “Avere tre figli da crescere comporta un rischio di povertà pari al 27,8%, valore che nel Sud sale al 42,7%”, si legge nel rapporto pubblicato nell’ottobre scorso. “E il passaggio da tre a quattro componenti, espone 4 famiglie su 10 alla possibilità di essere povere, mentre 5 o più componenti aumentano il rischio di povertà del 135%”. Insomma, ogni nuovo figlio, oltre che una speranza di vita, rappresenta purtroppo un rischio in più di impoverimento. “Di fatto – sottolineava in conclusione la stessa Caritas – l’Italia incoraggia le famiglie a non fare figli”.
    Rispetto a questo contesto, l’azione di governo attraverso la legge finanziaria ha dato risposte assai parziali come il bonus – pure importante − per gli incapienti. A fronte di misure positive volte alla generalità dei contribuenti, quali gli sconti per i proprietari di abitazione e per gli affittuari a basso reddito, è urgente una strategia incisiva d’intervento strutturale volta al sostegno della famiglia nei suoi compiti di allevamento e cura dei figli. Solo all’ultimo è stata introdotta una detrazione aggiuntiva, rivolta esclusivamente ai nuclei con 4 o più figli a carico. Segnale di attenzione alle famiglie numerose che va colto, ma certo limitato quanto a consistenza e platea di beneficiari. Le cifre relative alla povertà sopra evidenziate, invece, segnalano come sia necessario porre mano con urgenza – anche in riferimento alla continua, allarmante crescita dei prezzi − a una politica di rinforzo degli stipendi più bassi e delle pensioni minime, e in questo contesto esprimere un sostegno alle famiglie non limitato ai soli redditi, ma mirata ai carichi familiari.
    Il comparto sicurezza è uno di quelli che hanno procurato negli ultimi mesi tensioni e preoccupazioni. Se si vuole realmente incidere, bisogna dare certezza al diritto e mettere anche economicamente le forze dell’ordine nella condizione di agire.

    10. A livello ecclesiale non ci è certo sfuggita una singolare convergenza di sollecitazioni. Da una parte la “Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione”, emessa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dall’altra il lungo passaggio che il Santo Padre ha dedicato sempre all’evangelizzazione nel Discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2007; infine l’intervento all’Angelus di domenica 23 dicembre. Diceva in quella occasione il Papa: “Nulla è più bello, urgente ed importante che ridonare gratuitamente agli uomini quanto gratuitamente abbiamo ricevuto da Dio. Nulla ci può esimere o sollevare da questo oneroso ed affascinante impegno”. Per una Chiesa tradizionalmente molto impegnata sul fronte della missione, com’è quella radicata in Italia, riconoscersi in questo rinnovato imperativo evangelizzatore non è certo difficile. Ma è utile ricordarlo per ciò che esso significa sia nei termini di quell’auto-evangelizzazione che non è mai veramente compiuta, sia nei riguardi degli immigrati che arrivano sul suolo italiano, sia nell’impegno “ad gentes”, attraverso l’opera di missionari e missionarie.
    Diceva il Santo Padre nel citato Discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2007 che “diventare discepoli di Cristo è dunque un cammino di educazione verso il nostro vero essere, verso il giusto essere uomini”: è la ragione per cui noi stiamo guardando con crescente interesse e vera fiducia al compito educativo, non perché esso risulti facile quando non si è più sicuri delle norme da trasmettere e non si sa più quale sia il giusto uso della libertà, ma proprio perché è particolarmente arduo.
    Nella vita delle nostre comunità sono arrivati, all’inizio dell’Avvento, i tre volumi del nuovo Lezionario, domenicale e festivo, per l’intero ciclo triennale. Un fatto significativo che corona una lunga attesa e un intenso lavoro. Come è già stato doverosamente comunicato agli Uffici Liturgici diocesani, c’è rammarico per la decina di errori sfuggiti ad una revisione dei testi ritenuta affidabile, e sui quali naturalmente si interverrà al più presto.
    Nel Messaggio che Benedetto XVI ha inviato alla 45a Settimana Sociale dei cattolici italiani (Pistoia, 23 settembre 2007), chiedeva che gli stessi cattolici “sappiano cogliere con consapevolezza la grande opportunità che offrono queste sfide e reagiscano non con un rinunciatario ripiegamento su se stessi, ma – al contrario – con un rinnovato dinamismo, aprendosi con fiducia a nuovi rapporti e non trascurando nessuna delle energie capaci di contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia”. È questa consegna che mi induce oggi a rinnovare tutta la mia considerazione per il “Progetto culturale cristianamente ispirato” che, lanciato dal Cardinale Camillo Ruini nel 1994, ha avuto un primo varo nel Convegno ecclesiale di Palermo del 1995, e il definitivo avvio nel biennio 1996-98. Esso ha aiutato nell’ultimo decennio la Chiesa che è in Italia a individuare una “nuova svolta antropologica come il passaggio obbligato nel rapporto fede-cultura-società”, diventando “un punto di riferimento” per altre Conferenze e “un fattore dinamico di paragone e di confronto, talora dialettico, con tutti i soggetti pubblici che agiscono nella società civile italiana e non solo” (Patriarca Angelo Scola, Intervento all’Università Cattolica, 5 novembre 2007). Sono intimamente convinto che questo Progetto abbia prodotto molto di più di quanto esteriormente talora non appaia, in termini di una maggior consapevolezza ai diversi livelli: quello della pastorale ordinaria, giacché è attraverso tutta la sua attività che la Chiesa vuol fare anzitutto cultura; quindi mediante la presenza e l’azione dei cristiani nel mondo, i quali incidono nella misura in cui la fede diventa per loro vita vissuta; infine attraverso la valorizzazione della dimensione intellettuale e l’esercizio delle attitudini proprie di chi fa vocazionalmente cultura. In particolare, il Progetto è stato una felice occasione per far emergere competenze e professionalità, porle in rete, e convocarle a convergente riflessione su temi nevralgici. È il momento, a me pare, per dare un ulteriore sviluppo al Progetto, rafforzando un poco la struttura centrale e suggerendo a questa di promuovere periodicamente dei momenti pubblici di elaborazione e di proposta ad alto livello, dando la priorità − se questo sarà condiviso − ai temi della coscienza nel suo nesso con la libertà e la responsabilità.

    Cari Confratelli, il tempo intercorso dall’ultima nostra riunione e i fatti in esso accaduti, mi hanno indotto ad una riflessione più articolata del consueto. Per questo mi scuso, appellandomi alla vostra indulgenza. L’entità dei problemi che attendono la nostra valutazione ci sollecita anzitutto ad appellarci a quella preghiera che “si appoggia” sulla preghiera di Cristo (cfr. Gv 17,20). Ci corrobora il pensiero del nostro popolo, a cui il Santo Padre nella Festa del 1° novembre ha indicato la “schiera innumerevole di Santi e Sante che sono nati ed hanno vissuto in questa terra”, per incoraggiarci “a seguire sempre i loro esempi, conservando i valori evangelici per tenere alto il profilo morale della convivenza civile” (Saluto all’Angelus).
    Interceda per noi la Vergine Maria, la Grande Madre di Dio.

    Angelo Card. Bagnasco

    fonte: Conferenza Episcopale Italiana
    Genus humánum, in ténebris ámbulans,
    ad fídei claritátem per mystérium incarnatiónis addúxit.
    (Praefatio de Dominica IV in Quadragesima [A])

Discussioni Simili

  1. Risposte: 127
    Ultimo Messaggio: 13-09-2020, 22:48
  2. Commenti a documenti, interventi e responsabilità extra-liturgiche di Ecclesia Dei
    Di bertilla nel forum Liturgie secondo l'Usus Antiquior dei Riti Romano e Ambrosiano
    Risposte: 185
    Ultimo Messaggio: 04-12-2018, 15:24
  3. I documenti della Santa Sede sull'Arte Sacra
    Di OrganistaPavese nel forum Musica ed Arte Sacra
    Risposte: 13
    Ultimo Messaggio: 20-11-2009, 10:58
  4. Documenti ufficiali sulla remissione della scomunica ai Vescovi della Frat. San Pio X
    Di Mastai nel forum Liturgie secondo l'Usus Antiquior dei Riti Romano e Ambrosiano
    Risposte: 1
    Ultimo Messaggio: 12-03-2009, 12:10

Tag per Questa Discussione

Permessi di Scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  •  
>