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Cronista di CR
Non abbiate paura di consolare
PER LA GIORNATA DEL MALATO IL VESCOVO ERIO HA INCONTRATO IL PERSONALE E I DEGENTI DEGLI OSPEDALI DI MODENA
Venerdì 10 febbraio in occasione della XXXI Giornata del Malato, il vescovo Monsignor Castellucci ha fatto visita a una rappresentanza di pazienti e di professionisti che ogni giorno si impegnano per curare il prossimo al Policlinico di Modena e all’ospedale civile di Baggiovara. Dopo la Messa, don Erio, accompagnato dal cappellano don Charles, dal dottor Ottavio Nicastro, direttore sanitario dell’Azienda Ospedaliero – Universitaria di Modena, e da una delegazione della Direzione Professioni Sanitarie e della Direzione Sanitaria ha visitato i reparti di Post Acuzie e Riabilitazione Estensiva e Medicina Riabilitativa, dove si è intrattenuto con i pazienti e il personale portando una la propria benedizione.
OMELIA
<<In modo quasi martellante abbiamo sentito ripetere per nove volte nella prima lettura l’idea della consolazione. Il verbo consolare e il sostantivo consolazione fanno da filo conduttore nell’esortazione di Paolo nei primi versetti della Seconda Lettera ai Corinti. Ma cosa vuol dire consolare? La parola italiana, derivante direttamente dal latino, contiene due concetti che combattono tra di loro: con, che indica relazione e solo, che indica isolamento, solitudine. Nella etimologia latina significa che la solitudine viene vinta dalla relazione; consolare vuol dire prendere con sé la solitudine dell’altro e quindi farla svanire, farla scomparire. Consolare non è semplicemente piangere-con, soffrire- con, ma è attivamente distruggere la solitudine, creare una relazione. Quando c’è una vera relazione tra due o più persone, la solitudine svanisce.
Nel Vangelo di oggi mi colpisce un particolare; nella storia così vivace della guarigione del paralitico, per cui si scoperchia il tetto e l’uomo viene calato davanti a Gesù, attivando una discussione tra scribi e farisei, potrebbe sfuggire il fatto che, se questo paralitico non avesse trovato alcuni uomini che lo portavano davanti a Gesù, sarebbe rimasto bloccato nella sua paralisi. Questo paralitico è stato con-solato, qualcuno si è preso cura della sua solitudine ed è riuscito, superando diversi ostacoli - la folla, il tetto, le critiche dei capi del popolo - ad avvicinare Gesù. Se c’è qualche cosa che può vincere la paralisi interiore, è proprio la consolazione: qualcuno che si prenda cura della solitudine. L’uomo paralitico è l’emblema della solitudine assoluta, perché non è capace nemmeno di muoversi, non può fare nulla di proprio, è bloccato; se non c’è qualcuno che si prende cura di lui, muore: muore di fame, muore di sete, e dunque è proprio l’immagine più forte di come la con-solazione, qualcun altro che porti sulle spalle la tua solitudine, ti aiuta a superare la tua paralisi.
I motivi di solitudine nella nostra vita sono tanti e sono legati sempre a situazioni di sofferenza: può essere una sofferenza che viene dalla malattia: e qui siamo proprio in uno dei luoghi nei quali la relazione di cura parte da questo tipo di solitudine, perché quando il corpo si appesantisce, quando la forza viene meno, quando si avverte il morso del dolore, veramente si viene avvolti da un isolamento, e se non c’è qualcuno che tende la mano si rischia di ripiegarsi su se stessi. Ma può essere anche una solitudine dovuta a qualche sofferenza morale o psicologica, per la situazione di persone care: a volte le solitudini più pesanti vengono dal lutto, perché quando una persona che abbiamo amato scompare è come se qualche corda del nostro essere si staccasse, se ne andasse con lei nella tomba e ci troviamo più soli. Può essere una sofferenza spirituale, un dubbio di fede, una aridità interiore. Può essere una solitudine affettiva: un tradimento, una forte delusione, la rottura di qualche relazione importante nella vita. L’isolamento è come rimanere avvolti da uno strato spesso di povertà interiore e a volte anche esteriore; e allora è necessario che – come dice il Vangelo – alcuni uomini ti prendano sopra un letto e ti portino davanti a Gesù. E’ necessario che si riattivino delle relazioni. Certo, chi le ha coltivate nella sua vita, è più facile che nei momenti di solitudine le ritrovi; però è necessario che qualcuno si faccia prossimo, si faccia vicino, vinca la solitudine di coloro che tante volte restano ai margini. Se non c’è qualcuno che si china su di te e ti solleva, rimani lì.
Il Signore ci sta dicendo: fatevi prossimi, chinatevi, non abbiate paura, nei momenti di solitudine, di tendere la mano di chiedere aiuto, come avrà fatto questo paralitico con la sua voce; e non abbiate paura, nei momenti in cui incontrate qualche solitudine, di prenderla su di voi, di con-solare, di vincerla con l’offerta di relazione. Apparentemente c’è da rimetterci, ma in realtà ci si guadagna molto, perché consolando ci scopriamo più ricchi di quello che pensavamo.
Chiediamo allora al Signore, lui che è il grande consolatore e che ha mandato lo Spirito consolatore, di aiutarci a riallacciare le corde delle nostre relazioni; ci conceda l’umiltà di chiedere una mano quando siamo paralitici e il coraggio di dare una mano quando ne abbiamo la forza.>>
+ Erio Castellucci
Video: https:// www.youtube.com/ watch?v=HhWp9I4BScA
(Da "Notizie", settimanale diocesano - Carpi, Edition: 19.02.2021)
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Cronista di CR
Omelia del Vescovo nel Mercoledì delle ceneri
Perisigne Basilica Metropolitana di Modena – 22 febbraio 2023 - Mercoledì delle ceneri
L'Arcivescovo Erio ci fa dono della sua parola sempre intensa e ricca di spunti
Chi sono questi ipocriti contro cui Gesù parla, per ben tre volte? Quando fai l’elemosina non fare come gli ipocriti, quando digiuni, quando preghi non fare come gli ipocriti. Gli ipocriti letteralmente sarebbero coloro che mettono una maschera, per apparire diversi da come sono in realtà, per nascondere la parte più brutta di loro e mostrare quella più bella. Gli ipocriti sono quelli preoccupati unicamente dell’opinione della gente, coloro che vogliono dare un’idea di loro stessi, onorevole, bella, mentre dentro non sono così. Gesù pensa in particolare a quei farisei che al suo tempo si preoccupavano più di apparire che non di essere: scribi e farisei ipocriti, siete come dei sepolcri imbiancati.
Ma Gesù ha una medicina contro l’ipocrisia: chiede di liberarci dallo sguardo della gente per preoccuparci dello sguardo di Dio: quando fai l’elemosina, digiuni e preghi, cioè quando compi le opere della Legge, non misurarti su ciò che la gente pensa di te, su quello che si vede da fuori, non preoccuparti di essere lodato dalla gente, preoccupati dello sguardo di Dio, perché Dio che vede nel segreto ti ricompenserà. Liberazione dall’ipocrisia significa avere cura dello sguardo di Dio più che degli sguardi umani. E non è tanto facile: perché tutti siamo preoccupati di cosa penserà la gente, cosa dirà la gente, cosa si dice in giro di noi, come poter nascondere i nostri difetti ed esibire i nostri pregi. Tutti abbiamo la sindrome del teatro: bisogna recitare bene, poi la realtà – in fondo – se la gente non la vede, può essere anche diversa dalla recita. Gesù rovescia il criterio. La maturità e – si potrebbe dire – la felicità di una persona si misura dalla cura che ha per lo sguardo di Dio, anche sfidando a volte gli sguardi degli uomini.
Le tre pratiche suggerite da Gesù e lo stile con il quale le suggerisce, sono un esercizio di libertà. Libertà dagli sguardi umani e affidamento allo sguardo di Dio, a cominciare dalla preghiera, che Gesù elenca per ultima ma sulla quale poi si diffonderà: dopo questo richiamo alla preghiera Gesù infatti insegna il Padre nostro. La preghiera è il primo atto di libertà, perché ci mette in una relazione con Dio non come padrone, ma come padre. Il Padre nostro in lingua originale è formato da 57 parole: ma basterebbe la prima, “Padre”, per capire che è un esercizio di libertà. Non è lo schiavo che si rivolge al padrone, o un cliente che si rivolge al negoziante; è un figlio che si rivolge ad un padre; un Dio libero che vuole il nostro bene, al quale noi ci rivolgiamo come figli liberi, che chiedono, hanno l’audacia di domandare affidandosi a lui. La preghiera autentica, quella che Gesù ci ha insegnato, non è la preghiera di sudditanza degli schiavi o la preghiera commerciale dei clienti: è un esercizio di profonda libertà. Io nella mia libertà chiedo a Dio ciò che mi sembra meglio affidando a lui, nella sua libertà, i tempi e i modi dell’esaudimento.
Poi il digiuno, che andrà modulato a seconda delle diverse situazioni. E’ un esercizio di libertà nei confronti delle cose, degli alimenti, degli oggetti, di tutto ciò di cui possiamo dire: “è mio”. Rinuncio a qualcosa su cui avrei diritto, proprio perché sono libero, non sono il risultato di ciò che mangio o di ciò che possiedo; il mio essere è molto più del mio avere. La rinuncia a qualcosa rappresenta un esercizio di libertà interiore, uno spazio che mi umanizza, mi fa comprendere, a volte anche con un po’ di fatica – perché la rinuncia è sempre un po’ faticosa – che io sono più grande delle cose che possiedo.
Ma il digiuno non è fine a se stesso, non è orientato semplicemente a sentirsi più grandi delle cose, è orientato alla condivisione: per questo Gesù ci parla anche dell’elemosina. Nella lingua ebraica e aramaica non esiste il termine elemosina come la intendiamo noi, cioè come quel gesto non dovuto di benevolenza, se non addirittura di compassione: esiste la parola giustizia che si traduceva sostanzialmente nella decima parte del proprio guadagno che andava ai poveri. Questo era considerato un dono come atto di giustizia, non un “di più” facoltativo. Gesù sta dicendo che ci vuole una libertà anche nei confronti degli altri, la libertà di donare. Non possiamo costruire delle relazioni con i fratelli e le sorelle semplicemente funzionali, come se le nostre relazioni dovessero essere improntate unicamente al dare e avere; è necessaria una giustizia, una compensazione delle povertà nella forma di un dono che non pretende il contraccambio: un altro esercizio di libertà.
La Quaresima è dunque un esercizio di libertà: non è la fiera dei musi lunghi, non è una tristezza che dura quaranta giorni, è un guadagno di libertà interiore, perché siamo posti di fronte allo sguardo di Dio. La domanda più seria non dovrebbe essere mai: “cosa penserà la gente?”, ma: “cosa penserà il Signore?”. E cosa penserà il Signore lo sappiamo già: penserà che siamo dei figli amati anche quando sbagliamo, penserà che abbiamo sempre bisogno del suo amore e della sua misericordia in qualsiasi situazione ci troviamo. E se per caso avesse pensato di arrabbiarsi e di punirci – così immagina il profeta Gioele – sarà lui stesso a convertirsi: espressione molto forte che si trova solo due volte nell’Antico Testamento, una delle quali appunto nella prima lettura di oggi: “chissà che Dio non si ravveda”. E’ un’immagine umana molto bella per comprendere la qualità dello sguardo di Dio: anche se a volte, per assurdo, potesse essere tentato dal rancore, il suo è sempre uno sguardo paterno e materno, è sempre uno sguardo di benevolenza verso di noi.
LA QUARESIMA È – PRIMA DI TUTTO – LA CONVERSIONE DI DIO VERSO DI NOI, CIOÈ IL SIGNORE CHE GETTA SGUARDO SEMPRE NUOVO, SEMPRE BUONO, E CI CHIEDE COME ESERCIZIO DI LIBERTÀ DI CORRISPONDERE A QUESTO SGUARDO CON LA NOSTRA CONVERSIONE.
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Dal sito della Diocesi di Carpi (con adattamenti)
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Cronista di CR
Presentato il documentario «Condòmini»
IMPORTANTE E SIGNIFICATIVA INIZIATIVA DELL'ARCIDIOCESI
Il giorno 25 febbraio 2023 in Arcivescovado è stato presentato dal vice-direttore della Caritas diocesana, dott. Federico Valenzano: Condòmini, il documentario che “racconta” il problema abitativo partendo dalle voci di coloro che lo vivono in prima persona: inquilini e proprietari di abitazioni, rappresentanti delle istituzioni, delle comunità parrocchiali e altri abitanti della zona Crocetta-Sacca.
Per la realizzazione di questo documentario, si è svolta la ricerca “Città abit-abile”, con 170 interviste che hanno coinvolto persone di 17 nazionalità diverse. Gli esiti della ricerca, su mandato dell’arcivescovo Castellucci, sono stati l’inputper la nascita del progetto “Verso un’ecologia della vita quotidiana” (finanziato con i fondi 8xmille della CEI) per la promozione di una prassi condivisa nella gestione delle soluzioni abitative.
Alla Conferenza Stampa, era prevista la presenza del vicario generale (mons. Giuliano Gazzetti), assente a causa di un funerale.
Federico Valenzano, vicedirettore di Caritas diocesana ha rilasciato interviste alle TV locali e ha poi presentato il progetto.
Il documentario sarà proiettato il 2 marzo 2023 alle ore 21,00 al Teatro della Fondazione Collegio San Carlo (Via San Carlo, 3 – Modena) alla presenza dell’Arcivescovo.
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IL DOCUMENTARIO
Passare dalla domanda di case alle domande sulla casa: Questo il desiderio che anima la ricerca Città abit-abile i cui esiti vengono restituiti nel documentario Condòmini.
Prodotto dalla regia di Raffaele Pizzati Sartorelli, Condòmini ha gli obiettivi di:
animare la comunità locale comunicando gli esiti della ricerca dalle voci dei cittadini che hanno partecipato alla ricerca Città abit-abile;
generare un confronto tra soggetti differenti ma con pari dignità sociale attorno al problema abitativo;
restituire gli esiti della ricerca Città abit-abile a Caritas Italiana, dando conto del lavoro svolto.
Da questa restituzione nasce una prima traduzione operativa della ricerca, che è il progetto «Verso un’ecologia della vita quotidiana», che ha l’obiettivo di promuovere una prassi condivisa nella gestione delle soluzioni abitative nel Condominio Prato Verde.
Prassi che verrà costruita mediante l’accompagnamento di 35 famiglie residenti nel Condominio e inquiline delle Fondazioni Opere pie di Istituzione diocesana.
Il progetto è finanziato dai fondi 8xmille della Conferenza episcopale italiana (di seguito Cei) e conta sulla supervisione scientifica del Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata (di seguito Fisppa) dell’Università di Padova.
Condòmini verrà presentato alla città giovedì 2 marzo, alle 21, presso la Fondazione Teatro San Carlo (via San Carlo, 3). Un’occasione aperta alla cittadinanza – previa prenotazione – e alla quale sarà presente l’arcivescovo Castellucci, oltre alle autorità cittadine.
L’incontro trae ispirazione dal Cantiere sinodale dell’ospitalità e della casa e vuole facilitare il confronto sul problema abitativo, con particolare attenzione sulla qualità delle relazioni all’interno della comunità e sulla cura della Casa comune.
La ricerca intervento Città abit-abile
«Per i nuclei più fragili, l’indisponibilità economica resta uno dei primi ostacoli nell’accesso ad un alloggio in affitto ma l’assenza di responsabilità condivisa da parte di molti attori incide negativamente sull’intera comunità». Questo il dato che emerge dalla ricerca Città abit-abile in riferimento al problema sociale della povertà abitativa.
Un problema avvertito dal Servizio sociale territoriale poco prima della fine del blocco degli sfratti deliberato dalla Giunta comunale durante la pandemia; ma anche dalle comunità parrocchiali, che rilevano nel Vicariato Crocetta-San Lazzaro un maggior numero di abitazioni inadeguate, indebitamento per affitti e bollette non pagate rispetto ad altre realtà urbanistiche della città.
Da quanto emerso dalla ricerca: «sia i nuclei famigliari assegnatari sia i proprietari e la rete dei servizi rim2angono schiacciati sulle rivendicazioni a partire dalla propria esigenza immediata. Situazione, questa, che impedisce la nascita di forme di forme di partecipazione capaci di superare di superare l’atteggiamento di delega».
Per Caritas diocesana: «Il problema non si risolve solo nella risposta al bisogno in termini economici o con l’offerta di alloggi a costi sostenibili. Senza una responsabilità condivisa attorno ad obiettivi comuni e riconosciuti da tutti gli attori non è possibile un contrasto efficace alla povertà abitativa.
La ricerca è stata realizzata su mandato dell’arcivescovo Castellucci e finanziata dai fondi 8xmille della Cei, coinvolgendo 170 abitanti di 17 nazionalità.
Hanno partecipato alle interviste: operatori e volontari delle Caritas parrocchiali, parroci e rappresentanti delle istituzioni, dirigenti scolastici, insegnanti e altri abitanti della Crocetta-Sacca, ambito territoriale della ricerca.
Quasi un terzo delle interviste ha dato voce a persone fragili, divenendo occasioni di colloquio che consentivano loro di confrontarsi e ricevere ascolto.
Come si potrà apprezzare giovedì 2 marzo, uno spazio di partecipazione è stato riservato anche per i giovani e adolescenti del quartiere grazie di «Crocettopolis»: gioco da tavolo in cui partecipanti sono chiamati a immaginare delle azioni volte a migliorare la vita nel proprio quartiere mediante la gestione di un budget comunitario, ossia condiviso fra tutti i giocatori.
Il progetto «Verso un’ecologia della vita quotidiana» nasce dunque dall’analisi di tutte le risposte ricevute e dagli stimoli offerti da ciascuna delle persone coinvolte.
Altrettanto importante è stata l’interlocuzione costruita nella fase previa alla ricerca, con la creazione di un tavolo che ha coinvolto il vicario Generale, don Giuliano Gazzetti, Caritas diocesana, le Fondazioni Opere Pie e l’Assessorato alle Politiche sociali e abitative.
IL PROGETTO «VERSO UN’ECOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA»
«Costruire un modello di accompagnamento educativo con 35 nuclei residenti nel condominio Prato Verde, locatari delle fondazioni». Qui una prima traduzione operativa del progetto «Verso un’ecologia della vita quotidiana», finanziato dai fondi 8xmille Cei con l’obiettivo di promuovere una prassi condivisa nella gestione delle soluzioni abitative.
A tal fine, Caritas diocesana sta elaborando, insieme alle famiglie del condominio, dei progetti educativi per una corretta conduzione degli appartamenti e un’adeguata coesistenza con gli altri condòmini.
I progetti avranno una durata che va dai cinque ai dieci anni e coinvolgono nuclei con problemi di sovraffollamento, anziani e famiglie straniere in condizione di indebitamento.
Si tratta di un affiancamento di tipo educativo che ha l’obiettivo di promuovere un abitare sociale responsabile in coprogettazione con il Comune di Modena e i Servizi sociali territoriali.
Oltre al coinvolgimento delle istituzioni, «Verso un’ecologia della vita quotidiana» promuove la partecipazione attiva di tutte le realtà indispensabili per il contrasto della povertà abitativa: condòmini e amministratori; del territorio incarnato nelle parrocchie, nelle scuole, nelle associazioni; delle agenzie immobiliari, associazioni di proprietari, sindacati di inquilini. Coinvolgimento che mira ad attivare un’architettura dei servizi nel territorio della Crocetta-Sacca.
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CARITAS DIOCESANA:
«Agire nello spazio di possibilità»
Il progetto Città Abit-Abile, approvato da Caritas italiana e finanziato con fondi 8xmille CEI, nasce in virtù delle osservazioni prodotte dagli operatori di Caritas Diocesana Modenese entro il territorio del quartiere Crocetta-Sacca. Gli operatori di Caritas Diocesana, già presente nel territorio con il progetto “Fiducia nella Città” e la creazione del “Laboratorio Crocetta” presso l’ex sede del GVC in via Crocetta 18, avevano avuto la possibilità di entrare nelle abitazioni di alcuni residenti del quartiere e prendere coscienza di situazioni di grande povertà abitativa (sovraffollamento, degrado strutturale degli immobili, controversie tra condomini, morosità, ecc.) e, pertanto, di rilevare una profonda disuguaglianza tra soggetti abitanti nella stessa area cittadina.
Gli operatori di Caritas Diocesana hanno deciso, ancora prima di proporre interventi per favorire un cambiamento dello stato delle cose, di porsi in ascolto degli abitanti del quartiere al fine di rilevare le esigenze inespresse circa la gestione delle soluzioni abitative. Il progetto Città Abit-Abile aveva l’obiettivo di promuovere una responsabilità sociale condivisa della comunità locale del quartiere Crocetta-Sacca rispetto alla gestione delle soluzioni abitative. Fase decisiva del progetto è stata proprio la ricerca-intervento realizzata, il cui sviluppo è raccontato nel video-documentario “Condòmini” (regia di Raffaele Pizzatti Sertorelli); questa ha consentito di far emergere, grazie all’uso di una metodologia di ricerca che afferisce alla Scienza Dialogica (Prof. Gian Piero Turchi, Università degli Studi di Padova) e al sostegno di una supervisione scientifica dell’Università degli Studi di Padova (Dott.ssa Luisa Orrù), un livello di frammentazione sociale particolarmente elevato circa la gestione delle soluzioni abitative entro il quartiere Crocetta-Sacca. In particolare, l’emergenza abitativa fatica ad essere un tema su cui cittadini, servizi e ruoli istituzionali condividono una responsabilità di gestione; si è portati, piuttosto, a esprimere delle richieste delegandone ad altri ruoli la gestione e a rispondervi con interventi assistenziali che, a lungo termine, non mutano le condizioni di partenza. Tuttavia, la ricerca-intervento ha rilevato anche delle risorse della comunità locale, la quale mostra la capacità di rendersi responsabile e di partecipare attivamente alla gestione condivisa delle problematiche abitative della città. E’ in questo spazio di possibilità che Caritas Diocesana Modenese continua ad operare nel territorio per sviluppare competenze di responsabilità dell’abitare nei suoi residenti, per costruire un’Architettura dei Servizi che si muova secondo un obiettivo comune nell’affrontare l’emergenza abitativa, per promuovere una coesione sociale di tutta la comunità.
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(Dal sito dell'Arcidiocesi, con qualche adattamento)
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Cronista di CR
I Domenica di Quaresima - L'omelia dell'Arcivescovo
6 febbraio 2023 - I Domenica di Quaresima – A
OMELIA DELL’ARCIVESCOVO MONS. ERIO CASTELLUCCI
In quella grande parabola che è il racconto di Adamo e di Eva e che ci comunica verità sempre attuali, ad un certo punto Dio dice all’uomo e alla donna che possono mangiare di tutto nel giardino, tranne che dell’albero della conoscenza del bene e del male: non può essere la creatura a decidere cosa è bene e cosa è male. Dio ci ha dotati di una coscienza, nella quale lui stesso scrive ciò che è bene e ciò che è male, e noi possiamo riconoscerlo, non inventarlo. Ci rendiamo conto del resto tutti i giorni di cosa accade quando gli esseri umani vogliono mettersi al posto di Dio e chiamare bene il male e male il bene: vengono fuori violenze, sopraffazioni di ogni tipo, guerre, tante forme di egoismo. Però evidentemente il Signore vuole a tutti i costi la nostra libertà, dandoci la possibilità di scegliere. E infatti Adamo ed Eva, cioè l’umanità, tentata dal serpente, sceglie spesso di mettersi al posto di Dio: “diventerete come Dio” è la costante tentazione dell’orgoglio, della superbia, che anima i nostri comportamenti contrati alla legge di Dio scritta nella realtà.
Ma questa osservazione un po' pessimistica viene temperata, e anzi, in un certo senso rovesciata, da san Paolo quando scrive che il peccato è stato introdotto nel mondo attraverso Adamo, ma adesso, “molto di più” (lo dice per tre volte) molto di più siamo sotto la grazia. Noi non siamo davanti ad un bivio, dovendo scegliere ad ogni passo fra il bene e il male: noi siamo già salvati, perché il Signore ha già compiuto la salvezza; nel battesimo abbiamo ricevuto la possibilità di scegliere il bene; i nostri quattro amici, di cui fra poco scriveremo il nome nel registro dei catecumeni e che si stanno preparando da adulti a ricevere il battesimo, sanno bene che questa è la prospettiva: noi siamo già dentro la salvezza, avendo però la libertà di dire di no. E il Vangelo di oggi, attraverso l’esperienza di Gesù, ci fa comprendere la bellezza del dire di sì: come resistere alle tentazioni in negativo, ma soprattutto come intraprendere o intensificare la strada della vera libertà, che non è la libertà di peccare – abbiamo anche questa, che però porta ad una conseguente e graduale riduzione della libertà stessa – ma è la libertà di scegliere il bene. Gesù in persona ha vissuto le tre tentazioni davanti alle quali spesso noi ci troviamo, come lui, Ha preso la nostra fragilità, non ha preso il peccato (cioè la colpa), ma ha preso tutte le conseguenze della colpa. La prima tentazione riguarda le cose, la seconda riguarda Dio, la terza riguarda gli altri.
La prima tentazione è espressa dal diavolo in maniera molto astuta: Se tu sei figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane, cioè: fai un bel miracolo, utilizza le cose a tuo vantaggio, perché le pietre non si possono commerciare, ma se cominci a trasformare le pietre in pane, ti puoi arricchire, è un miracolo strabiliante. E Gesù invece non vuole stravolgere la natura delle cose: farà sì il miracolo della
moltiplicazione dei pani, ma trasformerà il pane che gli viene offerto in pane condiviso. Non vuole trasformare le pietre in pane, vuole rispettare la natura della realtà: il rapporto con le cose non può essere di sfruttamento e di abuso. Questo vale per i beni, vale per il denaro, vale per il creato. La strada dell’abuso, dello sfruttamento arbitrario, ci porta sempre all’infelicità; al contrario la strada di un uso delle cose per la condivisione – che siano beni, denaro o gli elementi del creato – ci porta alla felicità. Le cose devono servire e non possono spadroneggiare. Nel momento in cui il denaro e i beni, diventassero i nostri padroni, avremmo imboccato la strada dell’infelicità: ci troveremmo immischiati in quel meccanismo della avidità che è una passione triste, ci rende infelici. Le cose vanno utilizzate come doni di Dio, al servizio della condivisione.
La seconda tentazione è molto più sottile: Gesù viene portato in alto, sul tempio, e il diavolo gli dice: “Buttati, perché se sei figlio di Dio, lui ti verrà a salvare!”. Che cosa significa? Significa: metti alla prova Dio, metti la tua firma in un contratto con Dio, fai un patto con Dio! Questa è una grande tentazione, rapportarci a Dio come se lui fosse un padrone e noi gli schiavi, oppure lui un commerciante e noi i clienti; e invece siamo figli. Quando toccherà a Gesù chiedere qualcosa al Padre, gliela chiederà proprio come Figlio: “Se puoi, allontana da me questo calice, però non la mia ma la tua volontà sia fatta”. Il rapporto con Dio non può mai essere un rapporto commerciale, non possiamo porre condizioni a Dio. Non possiamo misurare il nostro rapporto con Dio su quello che vorremmo che lui facesse; e noi interpretiamo tutti i giorni, la posizione di figli, quando diciamo il “Padre Nostro”: intanto lo chiamiamo Padre, che vuol dire che noi siamo figli, non schiavi e non clienti; e poi gli diciamo: “sia fatta la tua volontà”.
La terza tentazione è il potere per il potere. Il diavolo porta Gesù su un monte altissimo e gli fa vedere tutti i regni della terra, dicendogli: “Tutto questo sarà tuo se prostrato mi adorerai”. Tutto sarà tuo: il potere inteso come rapina, possesso, piedistallo per potersi innalzare sugli altri. Un po' di potere l’abbiamo tutti, perché nel momento in cui due persone si mettono in rapporto tra loro, scatta anche un meccanismo di potere. E Gesù non ha rifiutato il potere: dirà anzi, alla fine dello stesso Vangelo di Matteo, “mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. Gesù ha rifiutato non il potere, ma la logica del potere fine a se stesso, che spadroneggia: l’ha invece piegato totalmente al servizio. Infatti salirà su un monte scomodissimo: il Golgota, non per innalzarsi su tutti i popoli della terra, ma per abbassarti e fare sue le nostre fragilità, persino le nostre miserie. Questo è l’esercizio del potere che incarna Gesù.
Dunque Gesù volge in positivo le tre tentazioni: non sfruttamento dei beni, ma condivisione; non il commercio con Dio, ma l’affidamento a Dio; non lo spadroneggiamento sugli altri, ma il servizio. Queste sono strade che Gesù ci indica per la nostra libertà: ci sta dicendo che noi giochiamo bene la nostra libertà, e che in definitiva noi siamo tanto più felici, quanto più seguiamo queste strade, quanto più ci doniamo.
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(Dal sito dell'Arcidiocesi)
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Cronista di CR
Omelie quaresimali dell'Arcivescovo
5 marzo 2023 - II Domenica di Quaresima
OMELIA DELL’ARCIVESCOVO ERIO CASTELLUCCI
“La voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo, mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,17-18), scriverà qualche decennio dopo l’apostolo Pietro, parlando dell’episodio della Trasfigurazione. E Giovanni – un altro dei tre che era presente – scriverà a sua volta: “Noi abbiamo visto la sua gloria” (Gv 1,14), riferendosi anche alla Trasfigurazione. Il terzo, Giacomo, non potrà scrivere nulla, perché sarà il primo degli apostoli martirizzato pochi anni dopo la resurrezione di Gesù. Evidentemente in questi tre apostoli è rimasta incisa l’esperienza della Trasfigurazione. Non che sia stata facile: il Vangelo usa due verbi abbastanza forti per dire che Gesù si è portato con sé Pietro, Giacomo e Giovanni; dice che “Gesù li prese con sé li condusse su un alto monte”. Non è un invito: è un prenderli per mano, quasi uno spingerli, perché a nessuno fa piacere salire; la salita è segno di una fatica, di un impegno. Poi la reazione dei tre è molto dissonante dalla scena sul monte: Pietro con la consueta impulsività, quando vede Gesù, Mosè ed Elia trasfigurati, dice: “Fermiamo il tempo, facciamo tre capanne, vogliamo restare qui”; non riesce a comprendere - ed è abbastanza logico - che Gesù stava dando semplicemente un antipasto della Resurrezione, che non era quello il momento di fermare il tempo, non era ancora giunta l’ora della gloria, perché Pietro - come tutti noi – vorrebbe fermare il tempo della gloria (“è bello per noi stare qui”), eternizzare i momenti belli, senza passare attraverso la fatica, l’impegno, il sacrificio. E Gesù, pazientemente, riconduce lui e i suoi compagni a valle: non è ancora questo il momento di fermare il tempo.
Il Signore inviterà di nuovo quei tre apostoli su un monte, un altro monte. Il Vangelo di Matteo dice che la sera dell’ultima Cena, dopo avere celebrato con i suoi discepoli il rito pasquale, Gesù salì sul monte degli ulivi, di fronte a Gerusalemme; e di nuovo l’evangelista usa questo verbo forte: condusse con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. E’ un’altra fatica: e questa volta reagiscono con minore impulsività, semplicemente addormentandosi. Gesù prega - una preghiera angosciata al Padre – controllando ogni tanto che i tre partecipino alla sua preghiera, ma li trova sempre addormentati, tanto che alla fine si rassegna: “Dormite ormai, e riposatevi: l’ora è giunta” (cf. Mt 26,45). I tre discepoli non riescono a fare compagnia a Gesù nel momento della passione: avrebbero voluto fermare il tempo della gloria, ma non riescono a sopportare il tempo della passione; e infatti sul monte decisivo non ci saranno. Secondo il vangelo di Matteo, attorno al Calvario sono presenti solo alcune donne, tra le quali la madre dei figli di Zebedeo, cioè proprio la madre di Giacomo e Giovanni, ma loro no: non accettano di accompagnare Gesù nel momento della fatica, del dolore. Perché?
Tutto questo è molto umano, poiché nessuno di noi sale volentieri sui monti del dolore; quando invece viviamo un momento di gloria, un’esperienza di gioia, vorremmo fermare il tempo: lì sì che ci interessa incontrare il Signore. Lui però ci rilancia sempre questa logica nuova: non c’è alternativa fra il monte della Passione e il monte della Trasfigurazione, tra il Tabor e gli Ulivi: bisogna sempre passare dal Calvario, cioè dal dono di sé. Il dono di sé è la chiave della gioia che dura. Noi ce ne accorgiamo quotidianamente nella nostra vita, non c’è bisogno di fare esperienze di trasfigurazione come Pietro, Giacomo e Giovanni; ci rendiamo conto che le mete più belle e durature sono quelle che abbiamo guadagnato; i traguardi che ci cascano addosso ci lasciano come prima, i traguardi che invece abbiamo conquistato e sudato, salendo sul monte, si incidono nel nostro cuore.
Non è possibile contemplare Gesù trasfigurato, se non lo si guarda sfigurato. E’ ciò che precisamente Pietro, Giacomo e Giovanni volevano evitare. L’hanno evitato fisicamente non andando al Calvario, poi in realtà hanno dato tutti e tre la loro vita per lui: hanno capito che ogni meta bella e duratura si guadagna attraverso il dono di se stessi. Questo è uno dei messaggi più chiari della Quaresima. La Quaresima pensata come un cammino graduale dal deserto al monte, è un momento di purificazione gioiosa: noi ci alleniamo per guadagnare la meta, non solo la meta dell’eternità, ma le piccole mete quotidiane. Quando noi andiamo in una cima appenninica o alpina, è molto diverso se la raggiungiamo con una funivia o una seggiovia oppure se la raggiungiamo a piedi. Certo, a piedi c’è da faticare, c’è da sudare, ma una volta che ci siamo è nostra; con la funivia e la seggiovia è più comodo, ma poi non la sentiamo così tanto nostra. Gesù ci fa vedere la meta: trasfigurazione e il Tabor, e ci dice: devi passare ogni giorno attraverso il dono di te, attraverso il Calvario, che non vuol dire tirarsi addosso le sofferenze, ma vuol dire decidere di amare ogni giorno. Allora la meta diventa nostra.
RINGRAZIAMO IL SIGNORE PERCHÉ CI INCORAGGIA SEMPRE: NEI MOMENTI DI DIFFICOLTÀ E DI DOLORE CI FA CAPIRE CHE C’È LA TRASFIGURAZIONE, CHE L’ULTIMA PAROLA È “RISURREZIONE”; E NEI MOMENTI DI GIOIA E DI ALLEGRIA CI FA CAPIRE CHE DOBBIAMO TENERE I PIEDI PER TERRA E CHE LA VITA HA SENSO SE SI FA DONO QUOTIDIANO.
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Cronista di CR
E' salito alla casa del Padre don Enzo Solieri
IL SIGNORE HA CHIAMATO ALLA VITA ETERNA, VENERDÌ 10 MARZO 2023, DON ENZO SOLIERI.
Sacerdote buono, operoso e umile, Don Enzo aveva 81 anni.
Lo ricordano nella preghiera l’Arcivescovo Mons. Erio Castellucci e il presbiterio diocesano, unitamente ai fratelli, ai nipoti, ai parenti e alle comunità parrocchiali di Sant’Anna ai Torrazzi e di San Matteo in Modena.
Nato il 3 giugno 1941 a Bomporto, don Enzo fu ordinato sacerdote dal vescovo Giuseppe Amici il 24 giugno 1965.
I primi incarichi di don Enzo furono come cappellano a Fiorano, poi a Vignola, a Santa Rita e alla Madonnina; Licenziato in Teologia nel 1971 e laureato in Lettere e Filosofia nel 1974, don Enzo ha svolto successivamente il suo ministero ricoprendo incarichi di economo spirituale, parroco e vicario foraneo della II zona cittadina.
Al momento del decesso, don Enzo era parroco a San Matteo in Modena (dal 1977) e di Sant’Anna ai Torrazzi (dal 1998).
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Sabato 11 e domenica 12 marzo nella Chiesa di Sant’Anna ai Torrazzi si è tenuta la camera ardente; nella stessa chiesa è stato pregato il Santo Rosario sabato alle ore 18,00 e domenica alle ore 10,00.
I Funerali si sono tenuti lunedì 13 marzo ore 15,00 sempre a Sant'Anna ai Torrazzi
(Dal sito dell'Arcidiocesi, con adattamenti)
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Cronista di CR
III Domenica di Quaresima - Omelia dell'Arcivescovo
TERZA DOMENICA DI QUARESIMA - !2.03.2023 - Perinsigne Basilica Metropolitana di Modena
OMELIA DELL’ARCIVESCOVO MONS. ERIO CASTELLUCCI
<< “Se tu sapessi chi è colui che ti chiede da bere”. Chi è che chiede da bere? Nel corso di questo intenso colloquio tra Gesù e la donna samaritana, questa identità misteriosa (chi è colui che ti chiede da bere) viene pian piano svelata attraverso cinque passaggi, cinque qualifiche di Gesù: la peggiore è la prima, poi si va in crescendo. Gesù è un giudeo nemico: così lo vede la donna quando, arrivata al pozzo, sbircia e coglie questa figura. “Come ma tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?”: c’era odio tra giudei e samaritani. Nel corso del dialogo però la donna è presa dal dubbio che lui sia più grande del padre Giacobbe perché promette un’acqua che zampilla per sempre, mentre Giacobbe aveva semplicemente costruito un pozzo: dunque un patriarca. Poi le viene addirittura il sospetto che sia un profeta quando indovina il suo passato burrascoso. Infine la donna va a dire in giro che probabilmente è il Messia. E come ultimo passo i suoi concittadini dicono: è il salvatore del mondo. Da giudeo nemico a salvatore del mondo: è un cammino di svelamento progressivo di Gesù: lo conoscono un po’ alla volta, quasi per dirci che Gesù lo si impara a conoscere gradualmente e che solo nel dialogo con lui è possibile capire qualcosa della sua identità.
Ci sono due particolari importanti nell’episodio, che possono sfuggire ad una prima lettura: il primo è l’orario. “Era circa mezzogiorno” – dice Giovanni – quando arriva la donna e trova Gesù al pozzo. Perché questa annotazione? Mezzogiorno non è l’ora in cui si va ad attingere l’acqua; quando le donne normalmente andavano ad attingere acqua alle fontane o ai pozzi, specialmente quando, come in questo caso, la sorgente si trovava lontano dal paese, andavano all’alba e attingevano per tutta la giornata. Mezzogiorno è l’ora più calda: fare fatica, sudare in quell’ora, portare a casa l’acqua solo per il pomeriggio: non è l’ora giusta. Evidentemente quella donna non voleva mettersi in fila con le altre, non voleva trovare occasioni di confronto e di dialogo, non voleva dare adito al chiacchiericcio: vista la sua situazione affettiva; già da questo piccolo particolare, si intuisce che era considerata nel paese una “poco di buono”. Di qui anche la sorpresa amara nel trovare al pozzo qualcuno, oltretutto un uomo, e un uomo giudeo. Il secondo particolare è che la donna poi dimentica l’anfora: lascia l’anfora al pozzo e corre al paese per dire che forse ha incontrato il Messia. Dimentica l’anfora perché ormai è stata estinta una sete diversa. L’anfora è il simbolo di una sete materiale, ma la donna aveva una sete esistenziale, aveva bisogno di un’acqua che zampilla per la vita eterna.
Come avviene questo passaggio, questa scoperta graduale di Gesù, questo dialogo che dalla diffidenza iniziale sfocia in una sorta di confessione? Avviene attraverso una frase inattesa del Signore: “Dammi da bere”. La donna poteva aspettarsi da un giudeo, da un nemico, una frase di disprezzo; al massimo poteva aspettarsi una frase di sa13luto, di comprensione: le sarebbe apparso strano ma avrebbe avuto certamente un effetto buono. Invece Gesù dice una frase che manifesta un bisogno, che esprime una necessità: Dammi da bere. La sorpresa capovolge la situazione: io ho bisogno di te – dice alla samaritana – io ho sete, tu puoi fare qualcosa per me; ed è proprio questo strano capovolgimento, questa zona buona che Gesù trova nella samaritana pur conoscendo tutta la sua vita e tutte le sue traversie, ciò che cambia l’atteggiamento della donna, tanto da indurre anche lei a dire a un certo punto: “Dammi di questa acqua”; anch’io adesso ti esprimo la mia sete, il mio bisogno, la mia povertà.
Tra i tanti spunti di questo stupendo incontro possiamo ritenere questo: il Signore ha sete, il Signore ha bisogno della nostra acqua. Certo, noi sappiamo che è molto più vero l’inverso: noi abbiamo un gran bisogno di senso della vita, abbiamo una sete di affetti, di riconoscimenti, abbiamo sete di relazioni vere, però lui non ha paura di esprimere a noi la propria fragilità perché è il suo modo per dirci; non ti ritenere poco di buono, c’è una zona buona dentro di te, ci sono delle risorse, tu puoi fare qualcosa per me. E’ per questo che san Paolo usa l’espressione, piuttosto audace, noi siamo collaboratori di Dio: significa che il Signore è così buono che vuole una mano da noi; se Gesù avesse puntato il dito contro questa donna – come probabilmente i suoi concittadini – non sarebbe scattato nulla, lei non avrebbe mai espresso la propria sete interiore; se scatta invece una conversione è proprio perché Gesù mostra la sua fragilità. Dimostrando la sua fragilità mostra la ricchezza che rimane nella donna. Per il Signore siamo ricchi, perché per quanto fragili, per quanto difettosi, siamo sempre figli. >>
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Dal sito della Diocesi di Carpi
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Cronista di CR
Omelie quaresimali dell'Arcivescovo Erio
IV Domenica di Quaresima - 19 marzo 2023 - Basilica Metropolitana
"La luce e la lotta fra la luce e le tenebre: questo è il filo conduttore della parola di Dio di oggi"
OMELIA DELL’ARCIVESCOVO METROPOLITA
<<La luce e la lotta fra la luce e le tenebre: questo è il filo conduttore della parola di Dio di oggi. La vista e la cecità: a partire però non dallo sguardo umano ma dallo sguardo del Signore sugli uomini. Quando si trattava di trovare per Israele, tremila anni fa, un re che succedesse a Saul, Dio mandò il profeta Samuele nella casa di Iefte; e Iefte che aveva tanti figli, uno più valoroso dell’altro, uno più bello dell’altro, glieli presentò tutti: ma Dio scelse l’ultimo, quello che il padre non gli aveva presentato, commentando: “L’uomo vede l’apparenza, il Signore vede il cuore”. E’ lo sguardo di Dio che dà valore all’essere umano; gli esseri umani, nel considerarsi tra loro, spesso valutano le apparenze: l’imponenza, il valore, la ricchezza, la bellezza, il potere; Dio invece è dotato di raggi-x che penetrano fino al cuore e vedono in profondità.
Il cieco nato di cui parla il vangelo si è sentito attraversato da questo sguardo, perché Gesù è l’unico che non lo giudica; tutti gli altri lo ritengono un peccatore, perché ogni malattia era collegata all'espiazione di un peccato commesso dalla persona stessa o da qualcuno dei suoi antenati; o lo vedono come un insolente e infatti i farisei lo cacciano via. Gesù invece lo vede come un fratello da salvare, un fratello a cui ridare la luce. L’uomo vede l’apparenza, il Signore vede il cuore.
C’è però un particolare che vorrei notare - molto brevemente perché il vangelo del cieco nato è stupendo, è anche molto lungo: Gesù dice ad un certo punto a quest’uomo, ancora cieco: “Vai a lavarti nella piscina di Siloe”. Questo miracolo comincia sulla spianata del Tempio, proprio alla sommità della collina su cui è fondata e costruita Gerusalemme; e la piscina di Siloe è alcune centinaia di metri sotto, a valle: per andare dal Tempio alla piscina era necessario percorrere un tunnel, il tunnel di Ezechia, che ancora oggi si può percorrere e che è pieno di acqua: ma è molto improbabile che un cieco potesse percorrere quel tunnel, lungo più di mezzo chilometro; l’altra possibilità è di scendere per un sentiero molto ripido, fatto anche allora di gradoni e di roccette: ed è ancora più improbabile che un cieco avesse potuto percorrere da solo quel sentiero. Evidentemente qualcuno lo ha accompagnato. Non basta incontrare lo sguardo amorevole del Signore per passare dalla cecità alla luce: è necessario anche essere aiutati da qualche fratello e da qualche sorella, è necessario essere sorretti da una comunità. Per questo gli esseri umani da sempre si sono riuniti in gruppi sociali, come le famiglie, le associazioni, le cooperative, le confederazioni; e da sempre, da quando Gesù è venuto, i cristiani si sono riuniti come Chiesa. E’ la Chiesa che ha accompagnato quest'uomo cieco dalla nascita e gli ha permesso di accogliere il comando di Gesù: "vai a lavarti e ci vedrai". Uno da solo non
riesce a compiere questo cammino: è troppo accidentato, è troppo complicato. Abbiamo tutti bisogno di appoggiarci gli uni agli altri.
C’è anche questo messaggio, dunque, nel vangelo: gli altri non sono solo coloro che ti accusano, che ti ritengono peccatore, che ti cacciano, che ti ostacolano in tutti i modi, che ti giudicano; gli altri sono anche quelli che ti sorreggono, che ti accompagnano, che creano reti di relazioni buone. Il Signore ci aiuti a raccogliere il suo sguardo misericordioso, a non lasciarci sopraffare dagli sguardi malevoli, dai pregiudizi; ci aiuti a sentire che lui arriva al cuore; ci dia l’umiltà, quando sperimentiamo momenti di buio, di tenebra, di lasciarci trasportare dai fratelli, dalle sorelle, e ci dia la forza, quando qualcuno ci chiede aiuto, di poterlo trasportare, di condurlo per mano. Se il mondo, secondo il sogno di Dio, fosse davvero una rete di relazioni buone, certamente sarebbe più luminoso.>>
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Dal sito dell'Arcidiocesi, con adattamenti.
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Cronista di CR
L'Arcivescovo ha incontrato i dirigenti scolastici
TUTELARE LA SCUOLA SERBATOIO DI RELAZIONI
INCONTRO DEL VESCOVO ERIO CON I DIRIGENTI DEGLI ISTITUTI PRIMARI E SECONDARI STATALI E PARITARI DI MODENA E DI CARPI
"COSA STA MUTANDO NELLA SCUOLA E IN CHI LA VIVE IN QUESTI ULTIMI TRE ANNI?”. È la domanda su cui l’arcivescovo Castellucci ha invitato a riflettere i dirigenti delle scuole primarie e secondarie statali e paritarie di Modena e Carpi durante l’incontro svoltosi martedì 14 marzo in Arcivescovado. Nell’ambito dei lavori per il Cantiere Sinodale sull’istruzione, Castellucci ha proposto un momento di dialogo aperto, accolto con grande disponibilità ed interesse dai numerosi dirigenti intervenuti. Un’occasione di confronto e di raccolta di idee, secondo i ruoli e le responsabilità delle diverse agenzie educative rappresentate, utile per consolidare relazioni interpersonali e generare spunti per azioni rinnovate e concordi. «Proprio le relazioni ha sottolineato l’arcivescovo Castellucci introducendo l’incontro -, sono la parte più preziosa da salvaguardare in quest’epoca, particolarmente nel campo delle attività educative e della scuola». «La scuola rimane uno dei pochi corpi intermedi ancora vivi e attivi che genera quotidianamente rapporti e riflessione – prosegue Castellucci –. Le recenti difficoltà dovute al Covid e alla violenza della guerra, che mettono alla prova i giovani e le loro aspettative di vita e di lavoro, impegnano il sistema scolastico, gli operatori della formazione ed in special modo i dirigenti scolastici a ripensare l’impegno educativo». Il prof. Arienti, responsabile dell’ufficio diocesano per la scuola, ha rimarcato il ruolo degli insegnanti di religione che, come membri effettivi ed attivi della comunità scolastica, possono «costituire legittimamente, per l’istituzione e per gli alunni, un solido punto di riferimento di ordine organizzativo e culturale». Tra i presenti è stata concordemente rilevata l’urgenza di un’attenzione ai ragazzi rivolta al piano educativo, oltre che alla cura dell’istruzione. In particolare la dirigente Giovanna Morini ha ricordato come oggi, a tre anni di distanza dal febbraio 2020, si possa dire che la scuola abbia saputo affrontare le emergenze pandemiche e strutturare dal basso giorno dopo giorno le azioni necessarie per tenere attive, seppure a distanza, le relazioni con gli studenti e con le famiglie. Tutto ciò nonostante le difficoltà professionali nel gestire le complessità normative e procedurali in continuo mutamento, per la salvaguardia della salute e l’adattamento delle procedure didattiche. Sono proprio i dirigenti con la loro attività e presenza a garantire la continuità del servizio scolastico tramite il sostegno a docenti, studenti e famiglie. La pandemia ha messo in risalto la funzione delle scuole e della dirigenza non tanto come struttura gestionale, ma come luogo capace di raccogliere la sfida urgente di fare cultura per le giovani generazioni, avviandole ad esperienze anche di ordine pratico ed esistenziale in cui possano mettere in gioco relazioni con altre persone come nelle esperienze di volontariato condotte nel quadro dei Pcto. Altri dirigenti intervenuti, tra cui Tina Ponticelli e Maura Zini hanno rilevato la forza della scuola e dei dirigenti nel restare un solido e quotidiano riferimento nei momenti di isolamento, ma nel contempo la successiva ed attuale vistosa tendenza dei ragazzi alla dispersione, alla passività ed alla solitudine, con frequenti situazioni di isolamento e ritiro sociale.
L’urgenza di lavorare insieme
L’incontro sinodale tra l’arcivescovo e i dirigenti scolastici è divenuto occasione di riflessione sulle sofferenze e le solitudini indotte dalla presenza invadente e totalizzante di social e cellulari. Nel vivace confronto è emersa anche la difficoltà nella quale si dibattono famiglie e genitori, sempre meno presenti nelle relazioni scolastiche, e a disagio di fronte a queste problematiche novità. La scuola rappresenta spesso l’unico sostegno possibile. Una situazione ancora più grave e che richiede massima attenzione se si volge lo sguardo in particolare ad alcuni bambini di famiglie disagiate o di origine straniera che vivono in condizione di pesante marginalizzazione. La città ha bisogno di un’alstati leanza educativa forte a cui tutti i soggetti possano contribuire, anche per strutture stabili, reti di sostegno sociale, doposcuola. A questo anche le parrocchie stanno dando un contributo e le chiese diocesane possono dare un ulteriore prezioso supporto sociale disinteressato. Pur nelle difficoltà ed urgenze rilevate, il clima dell’incontro ha trasmesso un forte senso di speranza e fiducia. La freschezza che mantiene il sistema scuola, il senso di responsabilità che vivono i suoi operatori a partire dai dirigenti, la capacità di leggere il nostro tempo ed il futuro della società e dei ragazzi, fanno della scuola un luogo privilegiato di progettazione e costruzione. Prima di un gradevole momento conviviale, Castellucci, nel ringraziare tutti gli intervenuti, ha rilevato che proprio questo metodo di dialogo e collaborazione, specifico della dinamica sinodale, permette di generare collaborazioni fruttuose. In conclusione si è formulato l’auspicio e il desiderio di dare continuità al dialogo proficuo generatosi, ricordando anche la figura di don Milani di cui celebriamo attualmente il centenario.
(Di Giovanni Boschini- direttore della Pastorale scolastica Arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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Testo ripreso da "Notizie" 18.03.2023
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Cronista di CR
Omelie quaresimali dell'Arcivescovo
V Domenica di Quaresima - Cattedrale metropolitana
OMELIA DELL’ARCIVESCOVO ERIO CASTELLUCCI
"Il Signore ci aiuti a rafforzare la nostra fede nella risurrezione, perché solo in questo modo diamo valore a tutti i momenti della vita terrena".
<< Il rimprovero di Marta – ripreso da Maria – è motivato: “Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”; è motivato, perché una volta che Gesù ha la notizia della malattia grave del suo amico Lazzaro, invece di partire rimane ancora due giorni lontano da Betania, in Galilea, e solo dopo decide di partire; e quando arriva, Lazzaro è già nel sepolcro da quattro giorni. Gesù temporeggia, sembra quasi disinteressato alla sorte dell’amico; forse temporeggia perché – come spiega ai discepoli – si deve manifestare la gloria di Dio, che non consiste tanto nel miracolo della risuscitazione di Lazzaro, quanto nel dare un segno anticipato del destino che attende tutti, lui compreso, cioè la risurrezione. Gesù non è venuto a prolungare la vita, Gesù è venuto a ridare la vita, a restituirla: non gli interessa allungare la vita, gli interessa aprire uno squarcio oltre la morte, spalancare la prospettiva dell’eternità. Per questo Giovanni non chiama mai “miracoli” quelli che noi così chiameremmo, ma li chiama “segni”: Gesù cioè non compie questi gesti straordinari per risolvere dei problemi immediati, che poi inevitabilmente si sarebbero ripresentati – Lazzaro è poi morto di nuovo – e che comunque non risolvono il problema di tanti; Gesù pone questi gesti come segni anticipatori del regno di Dio, nel quale non ci sarà più né lutto, né morte, né sofferenza. I due giorni di attesa e i complessivi quattro giorni di ritardo di Gesù sono, dunque, indicazioni temporali preziose: il Signore non vuole dilatare il tempo della vita terrena, vuole aprire la strada della vita eterna.
C’è poi un altro particolare: Marta e Maria dicono la stessa cosa, usando esattamente la stessa espressione “Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”; però Gesù si commuove solo dopo aver incontrato Maria. L’incontro con Marta è importante, perché muove la professione di fede di lei: “Signore io credo che tu sei la risurrezione e la vita”; però Marta non commuove Gesù; è Maria che commuove il Maestro, perché si getta ai suoi piedi e piange. Gesù è commosso dall’umile commozione umana, non è commosso dal rimprovero umano e nemmeno solamente dalla fede: la stessa frase detta da Maria – da lei però pronunciata ai piedi – è una frase che nuove in Gesù il pianto. Il Signore partecipa al lutto umano: siamo poco abituati a vedere che Gesù scoppia in pianto, come in questo caso, e scoppia in pianto per l’amico. A volte risolviamo la figura di Cristo in una specie di “mandorla divina”, come se non avesse provato dei sentimenti, non avesse vissuto dei momenti di crescita, di maggiore comprensione, come se insomma fosse completamente estraneo alla nostra condizione umana; mentre Gesù è immerso nella nostra situazione umana, e la commozione, l’umile commozione di Maria, produce la sua stessa commozione e il suo pianto: per tre volte in questo racconto ci viene detto che Gesù amava. E l’amore non sopporta che l’altro sparisca per sempre: questo è il motivo per cui Dio ha ispirato la fede nella vita eterna; gli ebrei cominciarono a credere nella risurrezione – come testimonia Marta –
già nell’epoca pre-cristiana; e la ragione fu la fede in un Dio che non può sopportare che la sua creatura amata perisca per sempre: Gesù viene a confermare questa fede addirittura con la sua risurrezione. Gesù passa attraverso il sepolcro per aprire dentro al sepolcro una fessura di luce.
Dio non può sopportare la nostra scomparsa per sempre, il suo amore è talmente grande che ci porta fuori dal sepolcro. La fede cristiana non è una fede banale nella ripresa di una vita dopo una parentesi: la risurrezione non sarà semplicemente riprendere la vita terrena, sarà una pienezza, sarà un corpo luminoso, sarà la realizzazione di tutte le relazioni vissute, sarà il trionfo di quei germi di amore che quaggiù abbiamo sperimentato solo per assaggi.
La risurrezione della carne è il segno che Gesù vuole dare; non allungare la vita ma ridare vita, dare pienezza di vita. Il Signore ci aiuti a rafforzare la nostra fede nella risurrezione, perché solo in questo modo diamo valore a tutti i momenti della vita terrena. Nulla va perduto, tutto ciò che noi viviamo nel nostro corpo, i nostri legami quotidiani, le nostre sofferenze e le nostre gioie, tutti quei germi di amore che ora esprimiamo in maniera incompleta e ferita, troveranno compimento nell’eternità perché Dio non sopporta che noi periamo per sempre, lui che ci ama immensamente. >>
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Dal sito dell'Arcidiocesi
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