«VIVI SOLO PER RACCONTARE!»
60 ANNI FA INIZIAVA IN ALBANIA LA LUNGA PASSIONE DELLA CHIESA CATTOLICA

Ardian NDRECA
«Vivi solo per raccontare» - è il titolo che il francescano albanese
Zef Pllumi, ha voluto dare al libro di memorie pubblicato nel 1995. L’autore del libro venne arrestato dai comunisti albanesi nel dicembre del 1946, trascorrendo la maggior parte della sua vita, eccettuata una breve interruzione negli anni Sessanta, nelle prigioni comuniste. Infatti è uscito da queste solo nel 1989.
Padre Zef, che ha oltrepassato gli ottant’anni, oggi, nel raccontare le sue vicissitudini è sereno e non rimpiange per niente l’aver trascorso la vita nelle prigioni del dittatore Enver Hoxha.
“Noi, in prigione, racconta lui, eravamo più liberi di coloro che stavano fuori e che rischiavano ad ogni istante di perdere tutto e di finire accusati, torturati e poi condannati”.
Alla fine del 1944 la Wehrmacht si ritirava dai Balcani e in Albania saliva al potere il regime di
Enver Hoxha. Questo ex-studente della Facoltà di biologia dell’Università di Montpellier, per prima cosa pose in atto l’eliminazione fisica della vecchia classe dirigente, e così iniziarono le fucilazioni dei funzionari, che avevano lavorato per i regimi precedenti. Non furono risparmiati neppure i professori, il clero e i giornalisti – insomma, ci si sbarazzava di tutti coloro che potevano impedire l’attuazione dell’ideale comunista.
Al Nord del paese, dove c’era una forte presenza cattolica, guidata attraverso una rete di scuole, parrocchie, missioni volanti, case religiose, riviste e bolletini parrocchiali, e con una gioventù inquadrata in diverse associazioni giovanili, si era mostrata da sempre una ostilità di fronte al comunismo. Infatti, le bande partigiane e dopo la «liberazione» le formazioni regolari dell’esercito comunista, erano penetrate con molte difficoltà nelle montagne, dove le forze nazionaliste prolungavano estenuate la loro resistenza fino agli anni ’50.
Saranno i primi giorni del marzo del 1945 a segnare l’iniziò dell’attacco del potere comunista contro la Chiesa cattolica albanese. I primi due sacerdoti che caddero sotto le mitragliatrici dei partigiani furono lo scrittore Andrea Zadeja e il poeta Lazzaro Shantoja, su quest’ultimo gravò l’accusa assurda di essere stato presidente della Società Dante Alighieri in Albania e di aver aiutato così la fascistizzazione del paese! Testimoni occulari raccontano che le sue ultime ore trascorse nella prigione di Tirana furono molto penose. Le sue gambe tumefatte e ormai affette da cancrena in seguito alle percosse esalavano un tanfo insopportabile, per cui gli aguzzini lo avevano infilato in un sacco, che gli arrivava fino alla vita. Fu ucciso la mattina del 5 marzo 1945, alla periferia di Tirana, dopo essere stato gettato vivo in una fossa, poiché non era in grado di reggersi in piedi.
Il
2 dicembre 1945 in Albania ci furono le prime elezione e l’unico partito presentato fu il Fronte Democratico Popolare. Chiaramente non ci furono osservatori stranieri, se si escludono i «missionari» titini e sovietici accreditati presso il regime di Tirana.
La vittoria fu conseguita dai comunisti, che avevano ottenuto il 90% dei voti.
Subito dopo questa farsa, che servì per la legittimazione agli occhi del mondo, il 7 dicembre iniziò una nuova ondata di arresti. I primi ad essere presi e torturati furono dei chierici, accusati di fare propaganda contro il regime per mezzo di volantinaggio. Subito dopo furono arrestati il francescano albanese Gjon Shllaku e i gesuiti Giovanni Fausti (italiano) e Danjel Dajani. L’accusa che gravò su di loro fu l’aver creato il Partito Democristiano albanese. Alla fine di gennaio 1946 gli accusati, scortati da un plotone di partigiani, attraversarono le strade di Scutari per giungere ad un tribunale improvvisato nella sala di un cinema. Lungo la strada frotte di ragazzi e di giovanni partigiani, per di più inquadrati nelle brigate, che provenivano dal Sud del paese, mentre sputavano e lanciavano improperi in direzione degli arrestati, cantavano il più amato canto partigiano del momento: «Vendetta gioventù, chiedono i caduti».
Durante una delle sedute, il pubblico ministero chiese addirittura l’arresto del difensore dei sacerdoti, un giovane avvocato di fede musulmana che poco dopo venne ucciso con una raffica di mitra all’interno della sede della polizia. Il 22 febbraio 1946 il «tribunale del popolo» emmise la condanna per i sacerdoti e per altre cinque persone, il verdetto fu: morte mediante fucilazione. La condanna venne eseguita la mattina del 4 marzo 1946 sul greto del fiume Kiri, a pochi passi dal cimitero cattolico. Secondo le testimonianze del sacerdote che era stato chiamato a portare i conforti religiosi, i condannati morirono dopo aver perdonato i loro uccisori, gridando: «Viva Cristo Re. Viva l’Abania».
“Il
14 novembre 1946 – ricorda il francescano
Zef Pllumi - il mio convento di Scutari si svegliò circondato da forze militari comuniste, che rinchiusero tutti i frati nel refettorio. Nel frattempo decine di militari controllavano dapertutto. Il partigiano, che faceva la guardia a refettorio, e che si chiamava Sheme, ogni tanto, pensando di offendere qualcuno che parlava oppure si muoveva, gridava: «
Cristo! Tu Cristo!». Alla fine gli chiesi: «
Ma tu lo sai chi era Cristo?», e lui subito: «
Certo, uno sporco fascista come voi”.
Alla fine furono trovate delle armi sotto l’altare maggiore della chiesa e parecchi frati furono arrestati. Prima di portare via le armi con gli arrestati, si presentò improvvisamente una troupe di un cinegiornale jugoslavo, che filmò i francescani davanti alle armi e alle munizioni trovate in Chiesa.
“La verità – continua l’autore del libro – si riseppe alcuni anni dopo, quando un membro del Partito comunista, nonché impiegato della famigerata Sigurimi fu arrestato per crimini contro il Partito. Dopo che era stato letto il verdetto, il giudice gli rimproverò di avere macchiato l’onore comunista. A quel punto l’imputato di scatto rispose davanti a tutti: «Ho macchiato me stesso per sempre quando con i miei compagni ho introdotto di nascosto le armi nella Chiesa dei francescani, per poi accusarli ingiustamente». Il processo venne annullato, poi un secondo collegio lo condanno a morte per aver svelato il segreto di Stato”.
“Sono stato arrestato, racconta Pllumi, l’11 dicembre 1946. Allora in Scutari, una città con circa 60 mila abitanti, esistevano 16 prigioni improvvisate in case di privati, in conventi, chiese, scuole, mulini; a me toccò di andare nella prigione che si trovava nel centro della città. Durante gli interrogatori il capitano della Sigurimi mentre mi percuoteva, diceva che il clero cattolico era stato sempre oscurantista, che aveva bruciato vivi Galileo Galilei [sic] e Giordano Bruno, che aveva fatto le crociate e organizzato l’Inquisizione. Io alla fine risposi, che ero un figlio indegno di san Francesco d’Assisi, il quale aveva insegnato la pace e il bene e chiedeva di amare i propri nemici. A quel punto, il capitano s’infuriò ancora di più: «
Amare i nemici, ecco con queste baggianate avete voluto ritardare la rivoluzione proletaria» - e giù le botte, che accompagnava sempre con il ritornello: «Ti farò uscire dalla bocca il latte che ti ha dato tua madre». Questa storia andò avanti per mesi interi”.
Il 16 gennaio 1948 il giovane francescano
padre Zef Pllumi insieme ad altri otto sacerdoti e un laico furono portati davanti al Tribunale speciale militare del distretto di Scutari. I quattordici capi d’accusa, formulati dal pubblico ministero affermavano che gli imputati, come tutti i membri della Chiesa cattolica, avevano causato molte guerre di religione, crociate, avevano preparato la Notte di San Bartolomeo, avevano bruciato vivi G. Galilei e G. Bruno, avevano collaborato con le potenze straniere ai danni del popolo albanese ed avevano combattuto il movimento comunista in Albania.
“Quando il giudice mi chiese se avevo nulla da obbiettare all’accusa – racconta Pllumi - gli risposi che non ero assolutamente d’accordo, perché io ero nato nel 1924, mentre la maggior parte dei fatti enumerati dall’accusa sono accaduti molti secoli prima”.
Gli imputati di questo processo, anche se provati dalle torture, si dimostrarono pronti a difendere se stessi e la Chiesa ribattendo con argomenti alle accuse assurde che furono loro mosse contro. Dissero che la Chiesa in Albania aveva sempre combattuto il giogo ottomano ed aveva difeso il popolo dai soprusi, che i primi libri stampati e le prime scuole erano opera della Chiesa cattolica, che i più illustri uomini del Risorgimento albanese erano usciti dalle scuole tenute dalla Chiesa cattolica.
Alla fine del processo tre degli imputati eccellenti: il mons. Frano Gjini, delegato apostolico in Albania, il padre
Mati Prennushi provinciale dei Frati minori e il mons. Nikollë Deda furono condannati a morte, mentre gli altri con pene che variavano dai 3 ai 15 anni furono messi in prigione. Soltanto un prete molto anziano e malato fu rilasciato con la condizionale, ma morì poco tempo dopo a causa delle vessazioni subite.
Secondo i verbali redatti dall’ufficiale, al quale il tribunale militare aveva assegnato all’esecuzione della condanna a morte, eseguita l’8 marzo 1948 alle ore 5 del mattino, le ultime parole dei condannati furono:
- Mons. Frano Gjini: «Viva Cristo Re, la religione cattolica e i cattolici nel mondo. Viva il Papa. Il mio sangue e il mio corpo rimarrano qui, ma il mio spirito e il mio cuore sono dal Papa. Viva l’Albania».
- Padre Mati Prennushi ofm: «Sono innocente, muoi compiendo il mio dovere. Viva Cristo Re. Viva il Papa. Vivano i cattolici. Viva l’Albania. Perdono per il processo e perdono coloro che spareranno sui nostri corpi senza colpa».
- Mons. Nikollë Deda: «Viva l’Albania, vengo ucciso a causa della mia missione. Viva Cristo Re. Viva il popolo albanese».
Il francescano Zef Pllumi, oggi unico superstite di quel terribile processo che intese paralizzare la vita sociale dei cattolici albanesi, mentre legge le carte del suo processo, ottenute da poco dall’
Archivio dello Stato, mi descrive le torture che si usavano allora.
“Tra le torture più comuni erano le percosse con calci, pugni, verghe di metallo, scariche elettrica nelle orecchie e negli organi genitali, il lasciare sospeso il prigioniero per le braccia ad un albero, fino allo svenimento, oppure chiuderlo per settimane rannicchiato in un piccolo armadio, mettere le uova bollenti sotto le ascelle, strappare le unghie con le pinze, si arrivava anche ad inscenare una finta fucilazione portando il prigioniero fuori città vicino ad una buca già aperta, le manette strettissime erano una tortura comune. Molto dipendeva anche dalla fantasia sadica dei torturatori, i quali potevano riempirti la bocca di sale, oppure lasciavano il malcapitato d’inverno tutta la notte immerso in acqua gelida, non permettevano di andare al bagno. Invece per indurre i più irriducibili a firmare testimonianze e verbali falsi tentavano di violentare la moglie o la figlia del prigioniero in sua presenza. Un mio confratello - continua il padre Zef – è stato legato per alcuni giorni con il corpo di una persona morta e nessuno lo slegava, finché non giunse l’ordine dall’alto.
Delle volte mettevano la persona sospettata di aver agito contro il regime in un sacco con dei gatti e poi battevano il sacco finché i gatti non facevano a pezzi le carni del prigioniero. Questa tortura fu sperimentata anche sul corpo di una probanda di soli 21 anni,
Maria Tuci, la quale aveva resistito per mesi nelle celle della polizia segreta a Scutari. In seguito alle ferite provocate dai gatti e agli altri stenti la giovane spirò poco dopo. Ma poteva andare anche peggio, come avvenne con i due sacerdoti don Alessandro Sirdani e don Pietro Çuni, i quali furono gettati vivi in una fossa biologica”.
Alla domanda se ha incontrato dopo la caduta del comunismo i suoi aguzzini,
padre Zef risponde: “
Si, anzi, uno di loro venne alcuni anni fa alla mia canonica a Tirana. Era molto malato e aveva bisogno di denaro per andare in Grecia per curarsi. Mi voleva lasciare il suo libretto di pensione in cambio di soldi. Gli diedi quel che chiedeva, ovviamente senza accettare il suo libretto. Si mise a piangere come un bambino dicendomi che era stato molto crudele con me e poi se ne andò via”.
Dopo la condanna del 1948 il francescano Zef Pllumi dovette trascorrere decine di anni nelle varie prigioni comuniste, lavorando alla bonifica delle paludi, all’estrazione nelle miniere del rame, alla costruzione di fabbriche e di stabilimenti industriali. Nel frattempo morirono quasi tutti i suoi confratelli e anche buona parte dei suoi cari. Nel 1967, quando il regime di Hoxha, sulla scia della Rivoluzione culturale cinese abolirà tutte le manifestazioni di culto, proclamando l’Albania primo Stato ateo del mondo, il padre Zef, che era stato rilasciato dalla prigione da qualche anno, ritornerà di nuovo fino alla caduta del comunismo.
Il fatto che il clero albanese non aveva accettato in nessun modo di creare una Chiesa nazionale divisa da Roma, come chiedeva il Bureau politico di Tirana, aveva inasprito in quegli anni l’atteggiamento dei comunisti e la loro lotta contro la religione.
In quegli anni per portare un prete in prigione e molto spesso anche davanti al plotone d’esecuzione bastava amministrare il battesimo oppure la cresima, era sufficiente accompagnare un corteo funebre al cimitero oppure benedire una casa. Si arrivò a processare un prete come sabotatore dell’economia socialista, poiché aveva invitato i fedeli a recarsi in chiesa la Domenica delle Palme con ramoschelli di alloro, pianta medicinale di grande importanza per lo Stato albanese «circondato dappertutto da nemici».
Dal 1944 fino al 1990 – scrive
Pjetër Pepa, studioso del genocidio perpetrato contro la Chiesa cattolica - i tribunali militari e civili albanesi hanno distribuito complessivamente ai membri della Chiesa cattolica 881 anni di prigione. Soltanto i
31 sacerdoti fucilati avevano fatto prima dell’esecuzione
250 mesi di interrogatorio. Ecco alla fine i risultati della lotte di classe:
8 sacerdoti morti sotto le torture,
4 uccisi senza processo,
3 morti in casa dopo essere stati prima torturati,
20 morti nei campi di concetramento, 38 morti dopo essere stati rilasciati dalla prigione. Al termine di quegli anni di terrore, dei sacerdoti e religiosi cattolici ne erano sopravvissuti soltanto
28, buona parte rilasciati dalle prigioni nel 1989. Se pensiamo che nel 1942 in Albania i cattolici erano soltanto una minoranza di 10% su una popolazione di 1.112.757 mila abitanti, allora si comprendono meglio le dimensioni del genocidio comunista.
La Chiesa albanese oggi è festante perché molti dei suoi figli morti a causa della fede cattolica sono sulla strada di essere riconosciuti dalla Chiesa universale come membri della grande famiglia dei santi.
* Osservatore Romano * (2 Aprile 2005)